Se paghi male i tuoi collaboratori, lavoreranno male.
Se non dai loro sicurezza per il futuro, passeranno tutto il tempo in cui non lavorano per te a calcolare tra quanto potranno fare a meno di lavorare per te.
Se non insegni ai tuoi collaboratori il mestiere perché temi che possano un giorno fare a meno di te, non hai visione.
Se non insegni loro il mestiere perché non lo sai fare, non hai il diritto di dire loro cosa fare.
Se non glielo insegni perché dovevano già saperlo fare, sei un illuso.
Se non cresci insieme alle persone con cui lavori, non stai costruendo niente.
Se pensi che il tuo lavoro non sia mai divertente, perché lo fai?
Se pensi che il tuo lavoro sia sempre divertente, non lo fai abbastanza.
Se credi di poterlo fare da solo, non stai ascoltando.
Se hai letto fin qui e ti ho fatto innervosire, urge esame di coscienza.
Mese: Maggio 2014
L’uomo che mette “fico” in “grafico”
C’è una persona nella mia squadra che è responsabile dell’aspetto di tutto ciò che facciamo. Dalla veste dei libri, per la quale lavora a braccetto con me in qualità di product manager, alla grafica di tutta la comunicazione istituzionale della Casa editrice, il grafico di redazione è una figura fondamentale e che può fare o sabotare il successo di un’azienda. Io ho la fortuna di lavorare con uno dei migliori, Lorenzo Bolzoni. Gli ho fatto qualche domanda per voi.
In cosa consiste il tuo lavoro, da quando ricevi gli impianti di un libro straniero da pubblicare, e come interagisci con il resto della redazione?
Gli impianti arrivano generalmente “zippati”, compressi in file di grandi dimensioni, per cui la prima cosa da fare è accertarsi che non manchi nulla e che siano documenti compatibili con i programmi che usiamo in redazione, quelli della Adobe Creative Suite (e infatti quando scopro che alcuni di questi – quasi tutti francesi, chissà perché – sono impaginati in XPress, mi prende un pizzico di nostalgia e sconforto… ho lavorato per anni su XPress, e mi piacerebbe che il nostro rapporto si limitasse ad un affettuoso ricordo).
I passi successivi sono: adattare l’impaginato alle dimensioni che abbiamo scelto per l’edizione italiana, ripulire le tavole dal lettering originale e fare tutte le correzioni grafiche necessarie, disporre le caselle di testo in InDesign (praticamente un esercizio zen) e infine inserire la traduzione. Copertina, sovraccoperta e risguardi si lasciano per ultimi: la priorità va alle pagine interne, anche perché dovranno affrontare un lungo percorso di riletture e correzioni prima di essere pronte per la stampa.
Le persone indispensabili perché tutto proceda bene sono prima di tutto coloro che dividono la stanza dei grafici con me, ovvero Andrea e Cosimo, che generalmente fanno il “lavoro sporco” di pulizia delle tavole e disposizione delle caselle di testo. Canzone dedicata loro: “Una vita da mediano”.
Subito dopo passiamo la palla (tanto per restare in tema) ai correttori di bozze, per due giri di riletture e correzioni. Generalmente chi traduce non si rilegge, ma rimane l’interlocutore primario per fugare qualunque dubbio o problematica, anche perché spesso è il supervisore medesimo di quel tipo di libro (a seconda che siano titoli francesi, serie americane, one shot…)
Infine viene l’ufficio stampa, cui forniamo tutto il materiale necessario per promuovere al meglio i libri freschi di stampa.
In che modo cambia il tuo lavoro quando si tratta di creare ex novo un libro italiano?
Di certo anche una idea grafica molto semplice, se creata ex novo, richiede inventiva e gusto, e soprattutto tempo per confronti e discussioni. Per la recente edizione BAO della serie Orfani la stanza dei grafici è stata impegnata diversi giorni solo per catalogare e impaginare al meglio il materiale grafico che avevamo a disposizione, con uno sforzo davvero notevole. A volte ci affidiamo anche all’aiuto di grafici esterni, quando cerchiamo proposte grafiche molto fresche, che possano “stupire” la redazione e i lettori (un nome su tutti: la bravissima Anna Iacaccia). Recentemente stiamo proponendo agli autori italiani che pubblicheremo nella collana “Le città viste dall’alto” la creazione della font basata sulla loro calligrafia, per rendere il loro libro ancora più personale e completo. Il contatto diretto e franco con loro è sicuramente indispensabile per la buona riuscita del libro. Finora è stato facile: sono tutte persone squisite, oltre che ottimi artisti.
Quali abilità specifiche alle esigenze del fumetto hai dovuto sviluppare o affinare quando hai cominciato questo lavoro?
Il mio primo lavoro come grafico è stato presso uno studio che si occupava di tutto: dai biglietti da visita, ai diari scolastici, ai calendari osé per carrozzerie (giuro). Lì sono rimasto circa dieci anni, e ho imparato a risolvere i problemi che un grafico deve affrontare più o meno quotidianamente. Impaginare un fumetto invece, vuol dire dedicare molto tempo al lettering, ovvero alla ricerca della miglior disposizione di un dialogo all’interno dei balloon. Con gli anni credo di aver affinato un mio personale gusto nella scelta delle font o come, banalmente, “andare a capo” e quando mi capita di revisionare alcuni dei primi titoli BAO, magari in vista di una ristampa, mi stupisco di alcune scelte che avevo fatto solo pochi anni fa, e che ora mi sembrano ingenue. Di certo ho sviluppato una maggior conoscenza, e rispetto, per la tipografia.
Ci sono cose che quando hai cominciato in BAO non sapevi fare e che ora hai fatto tue? Ti sei perfezionato a livello tecnico con corsi o seminari?
Aggiornarsi è fondamentale, e questa non è la solita frase fatta. Mi sono sempre interessato alla grafica (vengo da una laurea breve in Disegno Industriale e da tre anni di Scuola del Fumetto) e negli anni ho accumulato in modo quasi bulimico una gran quantità di materiale di studio e approfondimento, ma solo quando ho frequentato un corso professionale specificamente mirato verso la tipografia (con lezioni di storia della tipografia, type design, calligrafia, stampa tradizionale e rilegatoria) ho capito quanto era stata felice questa idea, perché da allora ho potuto riversare proficuamente nel lavoro le mie nuove competenze. Il mondo della grafica è un treno in corsa, e stare fermi sulla banchina, per quanto comodi, non è la scelta migliore (e ve lo dice un pendolare). Scegliete un treno, non necessariamente uno dei più moderni, e affrontate il viaggio con curiosità e interesse: scoprirete stimoli inaspettati per la vostra professionalità.
Tra le tante cose che ho appreso in BAO, quella fondamentale è il rigore nel metodo di lavoro. Non ci sono preferenze, non contano i nomi in copertina: il libro più importante del catalogo è sempre quello in lavorazione.
Qual è la parte che più ami del tuo lavoro e quella che invece ti pesa di più?
Tra i “Giusti” citati nella poesia di Borges c’è “Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace”. Quello che amo del mio lavoro è proprio questo: dedicarmi con dedizione e onestà al lavoro altrui, affinché sia presentato e preservato nel migliore dei modi. E amo il fatto che sia un atto silenzioso, quasi invisibile se fatto bene. Ci ha già pensato il poeta a rendere onore a tutta la categoria 🙂
Mi pesa la ripetitività di alcuni gesti strettamente legati alla produzione.
Tre doti umane che reputi fondamentali per fare questo mestiere.
La capacità di dialogo, perché il grafico non lavora in solitaria, ma deve continuamente confrontarsi con i colleghi, gli autori e tutte quelle figure professionali necessarie alla buona riuscita di un libro (prima tra tutte il tipografo). È essenziale saper comunicare.
L’attenzione serve a non ripetere gli stessi errori, sembra banale ma è uno dei segreti per fare libri belli.
La passione perché… chevvelodicoaffà.
Un consiglio per chi vuole cominciare a fare il grafico nel mondo del fumetto.
Citando Stefano Tamburini: “Per fare grafica ci vogliono muscoli”.
Sì, credo sia davvero il consiglio migliore.
Grazie a questa intervista ho scoperto la vena lirica del mio capo grafico, mi posso dire soddisfatto. Della sua sensibilità non ho mai dubitato (e sono sette anni che lavoriamo insieme). Spero che da questo post vi sia arrivata la sensazione che è possibile lavorare come grafici per una Casa editrice in qualità di collaboratore esterno, ma che il meglio si ottiene solo se qualcuno ti assume. L’editoria è uno sforzo collaborativo, che beneficia dalle reciproche influenze. La redazione ha bisogno di un grafico interno (nel nostro caso di due, a tempo pieno) per strappare il progetto di un libro dal mondo delle idee e portarlo nel mondo materiale. L’interazione tra un buon grafico e un progettista che conosca i materiali, le finiture, le possibilità tecniche e i loro costi porta a libri bellissimi. Che, l’abbiamo già detto, sono i soli che valga la pena di fare.
And the winner is (il fumetto, se glielo permettiamo)
Mastro Pangloss, nel Candide di Voltaire, sosteneva che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Quando penso ai premi di cui vengono insigniti i fumetti, penso che non sia del tutto vero. Perché i premi dovrebbero servire a far conoscere i fumetti più meritevoli di attenzione a chi non segue il nostro mondo con l’assiduità di noi addetti ai lavori e super appassionati.
Un po’ come i sommelier delle rubriche gastronomiche dei telegiornali dovrebbero consigliare buone bottiglie da abbinare alla cucina casalinga, invece di riempirsi la bocca di paroloni come “muscolare al palato, con un ritorno di bacche rosse” che non aiutano certo a comprendere che cosa sia il caso di stappare per il pranzo della domenica in famiglia.

I premi Eisner, sul palco della Indigo Ballroom dell’Hilton Bayfront di San Diego, nel luglio del 2013.
Nel migliore dei mondi possibili, un buon premio di fumetto avrebbe una giuria di addetti ai lavori capace di creare il palmarès delle nomination, da sottoporre poi al voto popolare (come gli Eisner); sarebbe sostenuto dalla sponsorizzazione tecnica di una catena di librerie, capace di dare risalto ai titoli in nomination nei propri punti vendita (come ad Angoulême); la cerimonia dovrebbe essere tenuta abbastanza all’inizio della fiera che li attribuisce (come a Lucca Comics & Games) per avere la possibilità di influenzare gli acquisti agli stand ed essere condotta da personalità dello spettacolo (come gli Eisner) per avere rilevanza presso i media nazionali; dovrebbe essere trasmessa in diretta web (come ad Angoulême) ed esprimere una figura di riferimento da far diventare presidente di giuria l’anno successivo (come… oh, be’, avete capito) e portavoce con la stampa dell’andamento qualitativo dell’annata che viene chiamato a giudicare. Se poi il circuito delle fumetterie desse rilevanza al “libro dell’anno” (come il Prix des Libraires BD in Francia), il cerchio si chiuderebbe virtuosamente.
Dobbiamo rendere l’emissione delle nomination di questo premio una notizia. La promozione in libreria dei titoli finalisti un evento. La vittoria una celebrazione.
Fino a quel momento, possiamo continuare a elemosinare l’attenzione dei media e a scusarci di non avere un hobby più glamour.
Ah, e per cominciare potremmo smetterla di andare a ritirare i premi in felpa o t-shirt. L’abito fa il monaco. 🙂
You’ve got to fight for your (foreign) right to party
Il mercato dei diritti stranieri nel fumetto è un universo a parte, governato da regole che si imparano con anni di esperienza, il che dà a chi se ne occupa il tempo di sviluppare un’arte della diplomazia tutta speciale, che sarebbe difficile insegnare in modo organico e logico.
Di base, quando si compra la licenza di un titolo straniero le cose vanno più o meno come quando si fa una proposta di contratto a un autore nostrano: si specificano la tiratura prevista (al di sotto della quale, una volta stipulato il contratto, non si può scendere), il prezzo di vendita, la veste editoriale, il periodo di uscita (o la cadenza, per una serie) e si offre un anticipo sulle royalties del progetto. Se si vogliono stampare duemila copie di un libro da dieci euro e le royalties sono all’8%, l’anticipo dovrà essere una parte di
(10 x 2000) x 8% = 1600 euro.
Quei milleseicento euro sarebbero la cifra dovuta in caso di vendita dell’intera tiratura, quindi il bravo acquirente trova il modo di pagare meno che può di quella cifra. Diciamo che riuscire a pagare il 60% di quella cifra sarebbe già un risultato soddisfacente.
Per fare leva su questo parametro, che l’editore straniero dovrà ripartire con gli autori, se ne hanno diritto, si può per esempio non obiettare al prezzo degli impianti di stampa.
Questo è un balzello che con gli anni è diventato odioso: si tratta di un retaggio del tempo in cui l’editore straniero prestava le enormi, ingombranti, delicate pellicole di stampa per consentire l’edizione in un’altra lingua, e giustamente si faceva pagare per il servizio. Ora la maggior parte degli autori si colora, lettera, impagina i libri da sola e quindi il fatto che la casa editrice chieda ai licenziatari esteri una tariffa (che non divide con gli autori stessi) per fornire quegli impianti è una cosa sempre più anacronistica e che a mio giudizio porterà prima o poi a un confronto aspro tra autori e i loro editori originali.
Il prezzo degli impianti, in un mercato come quello italiano nel quale buona parte delle tirature è bassa e quindi ha un ricarico dei costi fissi che incide molto sul prezzo finale di vendita dei volumi, è un argomento spinoso.
Se qualcuno avesse un’attività editoriale in più paesi, per esempio, potrebbe comprare la licenza di un titolo per più mercati e pagare gli impianti una sola volta, con un notevole beneficio economico per sé e anche per chi gli vende i diritti esteri, che in un sol colpo avrebbe “coperto” numerose caselle geografiche senza dover trovare un editore per ogni paese. Non ci sarebbe quasi più gara, se esistesse un operatore editoriale così.
(Ciao, sono quasi.)
Date per scontato che se un colosso editoriale non ha certi titoli stranieri, che sono gestiti da altri editori più piccoli, nel 90% dei casi è perché non li vuole. Altrimenti li avrebbe. Non tutto ciò che viene acquisito dall’estero è commercialmente sensato per il nostro mercato, ma è spesso un bene che venga pubblicato comunque: in primo luogo perché non è quasi mai possibile capire a priori cosa funzionerà e cosa no, e poi la diversità è una ricchezza da proteggere, anche se è palese che si pubblica troppo e con poco criterio, in Italia, e questo è anche uno dei fattori che rendono cronica la crisi dell’editoria (e non parlo solo di fumetti).
Detto questo, il modo migliore per approcciare una licenza straniera è convincere chi la può concedere che dietro alla richiesta non c’è solo un’offerta economica solida e convincente (suggerimento: una promessa di tiratura più alta della media fa più impressione di un anticipo immotivatamente alto), ma anche un piano di marketing concreto, supportato dall’azione di una buona squadra commerciale e di un solido ufficio stampa. Il rapporto diretto con gli autori funziona, è un elemento a favore del richiedente, ma è importante non scavalcare la gerarchia, sia che si stia trattando con un dipendente dell’editore straniero addetto ai diritti esteri sia che si parli con un agente, che ha ancora di più la responsabilità di proteggere il proprio cliente (e i suoi autori) da indebite intrusioni da parte di entità straniere.
Con il tempo, se si è lavorato bene con un libro, è normale che all’editore italiano che ha fatto un buon lavoro venga dato il diritto di fare per primo l’offerta per i lavori successivi dello stesso autore, ma non esistono esclusive aprioristiche.
Annunciare tre o quattro titoli di un certo editore, che so, americano, non vuol dire aver comprato l’esclusiva sul suo catalogo. Spesso i contratti vengono fatti volume per volume, le master license (accordi-quadro per un’intera linea editoriale) sono molto rare nel nostro mercato. Più diversificato è il catalogo dell’editore straniero, meno è probabile che tutti i suoi titoli in Italia vengano tradotti dalla stessa Casa editrice. Tranne nel caso in cui ci fosse la mega entità onnivora di cui sopra, che per ovvie esigenze strutturali dovrebbe cominciare ad alimentarsi con tale frequenza da non poter più andare troppo per il sottile.
Va tenuto presente che in generale un titolo importato costa meno di un titolo creato in Italia, se agli autori italiani viene riconosciuto un trattamento equo e onesto. Ovviamente c’è un sacco di gente che pagherebbe pur di pubblicare, quindi chiedere loro “solo” di realizzare un libro gratis è quasi fare loro un favore (sono ironico, casomai non lo si capisse al volo) e si può costruire un catalogo affrontando quasi solo i costi di stampa, ma anche questa operazione rientra nel novero dei libri che alimentano la diversità culturale dell’offerta al pubblico, ma che raramente generano una qualche forma di profitto. Un giusto equilibrio tra prodotto originale e licenze straniere è un modello virtuoso, difficile da perseguire e mantenere, ma che rende profondamente interessante un catalogo editoriale, secondo me. Esso è raggiungibile con le seguenti fasi:
- Ci si fa notare sul mercato con titoli stranieri di alto profilo (il che impone inizialmente di fare offerte più alte di quanto sarebbe prudente fare, perché essenzialmente chitticonosceatté?)
- Si realizza poco prodotto italiano, ma di alta qualità, che si integri bene con l’offerta importata.
- Stabilito un rapporto di fiducia con i partner strategici all’estero si comincia a spendere un po’ di meno per acquisire le licenze, ma si accetta sempre più spesso di stipulare accordi-quadro per più volumi di una serie o per più titoli insieme.
- Si produce più materiale italiano perché a questo punto la reputazione del marchio è tale da generare fiducia tanto nei lettori quanto negli autori, che sentono di avere interesse a pubblicare con quell’azienda al di là del mero profilo economico.
- Se ci si è affermati a sufficienza sul mercato nazionale si consegue l’autorevolezza per vendere all’estero i diritti delle proprie opere originali (cosa che sarà oggetto di un post a parte).
Se in azienda si parlano almeno tre lingue, siete a posto. Non solo perché farete meno fatica a farvi capire e a trasmettere la serietà delle vostre intenzioni, ma anche perché si creerà più fiducia nei confronti del rigore editoriale che applicherete all’edizione tradotta del libro che volete comprare.
La qualità in Italia sta aumentando, da qualche anno a questa parte, forse anche perché qualcuno ha alzato l’asticella, costringendo un po’ tutti a saltare più in alto. Fa bene vedere libri ben fatti, ben tradotti, ben adattati alle esigenze del nostro pubblico. Chiunque sia a pubblicarli, purché lo faccia bene.
(Ma che cosa c’è in un piano marketing? Ne parleremo presto.)
“Se” – Seconda puntata
Se non lo vesti con una grafica dignitosa, resterà sullo scaffale.
Se non fai solo i libri bellissimi*, creerai diffidenza nel lettore.
Se non sai convincere i librai a credere in te, puoi fare a meno di stampare.
Se non lavori incisivamente sulla fluidità della distribuzione, tutto il lavoro a monte è inutile e tutto quello a valle non sarà efficace.
Se bastassero i soldi per lavorare bene non avresti neanche questa scusa per il pessimo lavoro che fai.
Se la gente leggesse di più dovresti comunque lottare per attirare la loro attenzione su ciò che fai. (Vedi primo punto.)
Se non cerchiamo lettori in luoghi nuovi, ci saranno sempre meno lettori.
Se parliamo solo a chi sa già di cosa parliamo, non troveremo nuovi lettori.
Se miri in basso, colpirai ancora più in basso. Legge della fisica.
Se smetti di crederci, per favore smetti di fare questo lavoro. I soli zombie che fanno bene al fumetto sono questi.
* I libri bellissimi non sono un arbitrio. Sono quelli così significativi che chi li legge si sente in dovere di consigliarli agli amici e che hanno successo proprio per questo motivo.
In ricordo dei buoni maestri
Questo post lo scrivo di pomeriggio per pubblicarlo oggi stesso, perché non mi importa quanta gente lo legge. Direi che è personale, ma in questo mestiere ogni cosa è personale.
Ieri è mancato Dick Ayers. Era un disegnatore straordinario, che quelli della vecchia scuola definivano “della vecchia scuola”. Ho letto che non c’era più e mi sono detto: “Quando avevo ventun’anni mi disegnò una copertina”. La frase mi è sembrata assurda e mi ha costretto a riflettere.
Io ho cominciato a fare questo mestiere molto giovane. MOLTO giovane. E ho perso la mia bella dose di amici, per lo più perché il mondo del fumetto tende a erodere i confini tra le generazioni, a non far pesare la differenza di età.
Mi ricordo quando credevamo tutti che Archie Goodwin avesse sconfitto il cancro, e come tre settimane dopo non ci fosse più. Gli avevo parlato l’ultima volta il mese prima.
Mi ricordo quando ho ricevuto per posta gli auguri di Natale di Joe Orlando, tre giorni dopo la sua morte. Diceva che ci saremmo sentiti dopo le feste, perché “avevamo tutto il tempo” per fare quel certo lavoro insieme.
Mi ricordo l’estate in cui mancò Mike Wieringo, nel fiore degli anni, Mike il cui padre avevo portato a spasso per Venezia e Treviso e cui non ho mai saputo scrivere per dirgli quanto fosse stato importante per me suo figlio.
E due estati fa, quando mi sono trovato a ridere in una chiesa di campagna agli aneddoti su Sergio Toppi. Non avevo mai riso a un funerale, prima, e mai mi sarei aspettato che succedesse alle esequie di un uomo tanto serio e pacato.
Non sto cercando di deprimervi. Voglio solo raccontarvi che ciascuna di queste persone mi ha insegnato qualcosa sull’etica di questo lavoro, sulla folle abnegazione che ci vuole per farlo bene. Forse proprio perché ho conosciuto alcuni immensi maestri quando ero davvero piccolo, sento di non avere idoli ed eroi oggi, ma ho il dovere di meritarmi l’attenzione che mi diedero, e di onorare la loro lezione.
Ieri ho saputo che Dick Ayers non c’è più e mi sono ricordato un ometto gentile, cui piacevo perché gli parlavo nella sua lingua di posti che non aveva visto mai. Amavo le sue storie western e mi aveva fatto riflettere sul fatto che prima o poi tutti si stancano dei supereroi.
Lavoro in un’azienda molto giovane, molto dinamica, molto moderna. Non sono la persona più anziana nell’organico, ma il vecchio della redazione sono io. È il mio dovere. Io mi assicuro che i libri che escono da quelle stanze siano del tipo che avrebbe soddisfatto e stupito i miei mentori.
Grazie perché mi date la scusa per meritare ogni giorno il rispetto di chi mi ha insegnato questo mestiere.
Visto, si stampi!
Quando conosco un nuovo autore, il cui lavoro mi piace particolarmente, sono sempre sollevato quando scopro che è una bella persona. Perché se invece si rivelasse uno stronzo so che dovrei farmelo piacere ugualmente, ed è una cosa che mi costa immensa fatica.
C’è una figura professionale che invece mi deve piacere proprio, che deve diventare i miei occhi e la mia sensibilità quando un progetto sta per passare dal mondo delle idee a quello della fisicità, quando un libro diventa un volume. Si tratta del tipografo. In realtà l’esatta esistenza del tipografo come lo intendo io è dubbia come lo è quella di Shakespeare o di Omero: si trattava di una persona sola, o di un collettivo di autori? Così è per il tipografo, nella cui figura si riassumono l’uomo che ti fa il preventivo e studia con te le esigenze del supporto di stampa, della rilegatura, della confezione, e i tecnici che risolveranno materialmente le problematiche, restituendoti un libro che deve somigliare il più possibile all’idea che ne avevi quando l’hai progettato.
BAO utilizza principalmente tre tipografie: una si trova a Chivasso, in provincia di Torino, una in Cina e una in un luogo davvero lontano ed esotico, la bassa bergamasca. Il mix di fornitori si rende necessario perché non solo i libri hanno diversi costi a seconda delle loro caratteristiche, ma anche i diversi tipografi hanno diversi costi di avviamento a seconda delle macchine che usano, della dimensione dello stabilimento e di altre caratteristiche intrinseche dell’azienda.
Nel caso del tipografo di Chivasso, uno dei titolari è negli anni diventato anche un amico e una piccola leggenda nel campo del fumetto italiano. Gli ho rivolto qualche domanda per voi.
Vi presento Francesco Bosco, di Aquattro Servizi Grafici.
Da quanti anni esiste la tua azienda e da quanti stampate fumetti?
La tipografia è nata verso la fine degli anni ’80, sotto forma di cooperativa (si usava molto, in quel periodo…) e già nei primi anni ’90 cominciavamo a stampare fumetti per la divisione editoriale di una azienda Torinese. Da quel momento in avanti, tutto è cambiato.
A quante unità ammonta attualmente il personale della tua azienda?
In tutto siamo dieci persone. Due in amministrazione, tre al reparto grafico, tre in stampa e due tra magazzino e organizzazione reparto produttivo.
In percentuale, quanto del vostro fatturato annuo è dato dalla stampa di fumetti?
Più o meno il 50%, una percentuale che aumenta di anno in anno, per fortuna!
Ci menzioni i titoli più significativi per il grande pubblico che avete stampato negli ultimi cinque anni?
Per nostra soddisfazione devo dire che sono stati molti. Vediamo… Comincio con la vostra “concorrenza” semplicemente perché ho iniziato prima a stampare per loro, e cito la serie completa di Torpedo, di Abulí e Bernet, Tre Ombre di Cyril Pedrosa, Il Corvo di James O’Barr, Le prime tre raccolte di A Panda Piace di Giacomo Bevilacqua, Tex, L’uomo di Atlanta di Nizzi e Bernet e L’Eternauta, che ha avuto un enorme successo e che abbiamo ristampato ben quattro volte. Poi molti manga di alto livello, tipo le serie di Go Nagai, Billy Bat, I am a Hero, ecc. Per Bao Publishing sicuramente Bone di Jeff Smith, Tutti i libri di Terry Moore (da Strangers in paradise, a Echo alla serie in corso Rachel Rising), Saga di Vaughan e Staples, Zot! di Scott McCloud, Last man di Vivès & C., e poi tutti i volumi di un autore ai più sconosciuto, ma che a noi sta particolarmente a cuore, un certo Zerocalcare. Devo anche dire che io personalmente sono molto legato a due titoli: uno è Sailor Twain, l’altro è I kill giants. Diciamo che tutti e due hanno dato una svolta professionale, decisamente positiva, alla tipografia. Con piacere aggiungo che ad ogni Lucca Comics da quando abbiamo iniziato a stampare fumetti abbiamo vinto, se così si può dire, qualche premio. Vorrà pure dire qualcosa…
Quali sono i costi fissi della tua attività che rischiano di incidere in modo pericoloso sul tuo bilancio quando c’è meno lavoro?
L’energia elettrica, sicuramente. Le macchine non possono stare ferme a lungo, pena il loro decadimento strutturale. Devono avere una regolare manutenzione, e questo comporta l’uso di energia elettrica, di prodotti e di manodopera, che è l’altro costo fisso importante che non ha argine se non supportato dall’ingresso di lavoro. È brutto da dirsi, lo so, ma quando non c’è lavoro i dipendenti sono comunque e giustamente da pagare. Questo incide sul bilancio in modo pesante. Fortunatamente fino ad ora non abbiamo avuto problemi, da questo punto di vista.
In che modo interagire con un editore di fumetti, nella tua esperienza, è diverso dal rapporto con un editore di narrativa o saggistica e quali sono le figure chiave, nel tuo organico, per gestire il rapporto con il cliente-editore?
Dunque, il rapporto di lavoro tra editore e tipografo dipende molto dal tipo di persona con la quale si ha a che fare. Sembra banale, ma non lo è. Se l’editore è restio ai suggerimenti, se vuole avere il controllo assoluto su tutto e se ha un’idea molto precisa di quel che vuole e non accetta cambiamenti, la strada è tracciata. Si fa quel che dice lui. Il problema sorge quando il risultato non è all’altezza delle sue aspettative… A questo proposito devo dire che l’editore di fumetti è molto più aperto a suggerimenti e proposte che non l’editore di narrativa, con le dovute eccezioni da entrambi i lati, ovviamente.
Sicuramente perché il prodotto finito “fumetto” è molto più “visivo” rispetto al libro classico. È giocoforza quindi che chi pubblica fumetti abbia molto più a cuore l’aspetto estetico finale, risultando più sensibile ai suggerimenti del tipografo. In questo caso la figura di intermediazione deve essere in grado di capire il progetto dell’editore, ma anche dell’artista, e suggerire di conseguenza la soluzione migliore per far rendere al massimo il fumetto su carta stampata. Che carta è meglio usare per far rendere bene le sfumature di grigio? E il nero deve essere pieno e intenso o più chiaro? La quadricromia rende bene su carta uso mano o è meglio stampare su patinata? Tutte domande tecniche o estetiche alle quali il tipografo deve saper rispondere. Se si instaura un buon rapporto biunivoco di fiducia tra editore e tipografo, la maggior parte del lavoro è fatta.
In cosa ritieni la tua azienda competitiva rispetto all’agguerritissima concorrenza, anche considerando che lavori in una regione storicamente ricca di tipografie?
Senza cadere nella trappola dell’autocompiacimento, dico solo che proprio il fatto di operare in una regione dalle forti tradizioni tipografiche è uno stimolo per cercare di lavorare sempre al massimo. Qualitativamente e propositivamente.
Ovvio che la concorrenza, sul fronte dei prezzi, è sempre un pericolo. Qui in A4 si è però consapevoli che la grande professionalità, la lunga esperienza nel campo della stampa di fumetti e la alta qualità dei nostri prodotti siano caratteristiche di sicuro vantaggio rispetto ai nostri concorrenti, comunque bravi, non c’è che dire.
Infine, ma non per importanza, la passione (sfrenata, nel mio caso…) per il mondo del fumetto. Se metti passione in quello che fai, se capisci che un lavoro non sarà mai uguale a un altro, allora sei sulla strada giusta.
In cosa state investendo maggiormente, per restare al passo con i tempi e sempre un passo avanti alla suddetta concorrenza?
Innovazione tecnologica e ricerca dei materiali su tutto, ma l’occhio al passato e alla tradizione non possono mancare. Senza storia non c’è futuro e questo vale nella vita come nel campo professionale. Un tipografo deve sapere che quello che si fa adesso, qualche anno fa lo si faceva in modo diverso. Perché qualche tecnica “vecchio stile” ogni tanto salva il lavoro… Poi la formazione professionale degli addetti, l’interazione stretta con i fornitori per l’uso dei materiali, la ricerca di soluzioni alternative.
Per tornare alla questione energetica, abbiamo investito molto sulla “green economy”, installando 20 Kw di pannelli fotovoltaici, e certificandoci per produrre stampati FSC® e a compensazione totale di CO2. Per noi è fondamentale continuare a crescere nel rispetto dell’ambiente. Sono ormai molti anni che abbiamo fatto scelte aziendali che vanno in questa direzione, e ne siamo orgogliosi! Questa è una differenza rispetto ad altri non da poco, ne siamo convinti.
Questa chiacchierata con Cek mi ha fatto tornare in mente la lavorazione di Sailor Twain, un caso esemplare del motivo per cui la relazione con il tipografo deve essere fortemente sinergica con il pensiero dell’editore.
Il libro di Mark Siegel era molto importante per noi. Perché lo abbiamo amato fin da subito e perché Mark è un caro amico, oltre che il direttore editoriale della First Second, una delle Case editrici con le quali abbiamo più sintonia di catalogo. Volevamo che il nostro libro fosse bello quanto l’edizione americana e quanto più possibile simile a essa. Non avevamo pensato però che la carta scelta per quell’edizione non era particolarmente adatta alla stampa di immagini: era sottile, avoriata e con una porosità molto specifica. Il disegno di Mark invece è a carboncino, quindi con una retinatura molto variabile e sfumature di grigio difficili da rendere su qualunque supporto. Su una patinata avremmo avuto immediato controllo, ma su una uso mano come quella era davvero difficile bilanciare la retinatura lieve e vaporosa di certe pagine con i grigi profondi, quasi neri, di altre.
Ero presente all’avvio di stampa, un po’ perché ero preoccupato da quel problema e un po’ perché volevo portare in ufficio un foglio-macchina intonso da spedire a Mark per fargli vedere che mi ero interessato personalmente alla resa del suo libro. Arrivato davanti alla Heidelberg di Aquattro ho subito capito che c’era nervosismo, che Paolo, il tecnico di macchina, non era soddisfatto dei fogli che stavano uscendo per le prove.
Siamo rimasti lì a rimuginarci almeno un’ora. Poi Paolo ha avuto un’illuminazione ed è sparito dietro alla macchina. Vorrei dirvi che si è sentito il rumore come di un enorme turacciolo stappato, ma mentirei. Fatto sta che neanche cento fogli stampati più tardi il sedicesimo di prova era perfetto: grigi profondi e con contorni precisissimi nelle zone più scure e una retinatura nitida, morbida, precisa, nelle zone più sfumate. Perfinio Cek ha chiesto che cosa fosse cambiato, e Paolo ha detto: “L’inchiostro”. Quello che aveva cominciato a usare era questo:
Una pozione inventata decenni fa da un fabbricante di inchiostri per soddisfare le molto specifiche esigenze di stampa della Bonelli. Perfetto controllo dei neri su una carta molto porosa, per l’appunto. Il libro è venuto perfetto, bello come quello americano*, e Mark ne è stato molto contento, come noi.
Non sarebbe stato possibile, se non avessimo avuto un tipografo creativo, intelligente e capace di parlare con noi per capire le nostre esigenze.
Forse anche per questo, dopo l’editor, ho voluto parlare di questa figura prima ancora di quella, assolutamente essenziale, del grafico. Ma a questo rimedieremo la settimana prossima.
* In realtà la nostra edizione è un po’ più bella, perché ha una sorpresa che nell’originale non c’è. Se sbucciate via la sovraccoperta la vedrete.
“Se” – Prima puntata*
Se credi che a una certa ora il lavoro debba finire per forza, che sia finito o no, questo lavoro non fa per te.
Se credi che lo si faccia in una stanza silenziosa, e che i lettori non siano un problema tuo, questo lavoro non fa per te.
Se credi che lo si faccia alle feste, a parlare di quanto sei bravo a farlo, questo lavoro non fa per te.
Se credi che un giorno riuscirai a farli contenti tutti, anche con il disparato insieme delle opere che avrai regalato al mondo, questo lavoro non fa per te.
Se credi di poter fare a meno di una squadra affiatata, perché la tua visione è più forte di qualunque difficoltà, questo lavoro non fa per te.
Se credi che la tua passione basti a renderti competente, questo lavoro non fa per te.
Se credi che la tua passione basti a darti il diritto di farlo, questo lavoro non fa per te.
Se credi che la tua passione basti, lo stai facendo sbagliato.
Sono quindici anni che questo mestiere mi insegna che non lo amo ancora quanto lo amerò l’anno prossimo, nonostante sia una lunghissima lezione di umiltà.
Napoli Comicon 2014 è passato. Grazie a tutta la nostra équipe, ai nostri autori ospiti, italiani e stranieri, all’organizzazione, a chi ci è venuto a trovare allo stand e a chi ci ha portato un sorriso, del cibo, i propri fumetti, suggerimenti e critiche. Nulla di ciò che facciamo avrebbe senso senza di voi.
* Con molte scuse a Rudyard Kipling

Alexandre Clérisse, Stephen Collins e io che traducevo da due lingue. Ho mandato in confusione Alexandre, che ha cominciato inspiegabilmente a parlare inglese.
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Risky business
Siamo nel Ventunesimo Secolo. Ci sono internet, il crowd-funding, le licenze creative commons, l’autoproduzione, gli store digitali. A che cavolo serve un editore?
Per dire, Zerocalcare ha fatto tutto da solo, no? Mica ha bisogno di un editore, lui.
Se fosse vero, perché tutti gli editori d’Italia (e intendo tutti, mica solo quelli di fumetti, fidatevi) hanno cercato di fargli firmare un contratto? Che cosa hanno mai da offrire le Case editrici a un autore?
Vediamo un po’. Dal momento in cui un libro smette di essere solo un progetto sulla carta, per una Casa editrice, comporta degli investimenti: dopo lo stanziamento per l’anticipo all’autore, bisogna stabilire la tiratura. Non ci sono dati certi, per deciderla, visto che le copie ordinate dalle librerie generaliste possono generare riordini, ma anche rese, e che gli ordini del circuito delle fumetterie arrivano molto a ridosso del momento di mettere in vendita il libro stesso. Per evitare che il costo per copia del volume sia troppo alto la tiratura deve essere non più bassa di un certo numero di copie, ma per non incorrere in eccessive spese di trasporto e stoccaggio non deve essere assurdamente più alta delle stime di possibile vendita.
Si tende a cercare di paragonare ogni libro a un volume chiamato gemello, uscito l’anno prima e di cui già si conosca la performance. Per esempio, BAO sta per pubblicare Come prima di Alfred, che consideriamo gemello di Portugal di Pedrosa. È un assunto rischioso, perché Portugal è andato molto bene (quasi cinquemila copie in due anni), ma crediamo che il pubblico che ha amato il libro di Pedrosa vorrà anche quello di Alfred e abbiamo calcolato la tiratura di conseguenza.
L’editore quindi fornisce le copie alle fumetterie e alle librerie di varia (il che significa stampare centinaia di copie dei copertinari per la rete promozionale, andare alle riunioni di aggiornamento della rete, caricare le anagrafiche dei titoli nel portale del distributore…), gestisce la fatturazione, manda copie ai punti vendita dove saranno fatte presentazioni, gestisce gli invii stampa, informa la rete dei promotori di ogni passaggio sulla stampa o in televisione del libro, contatta le grandi librerie online per assicurarsi che abbiano sempre scorte dei titoli più caldi (quando Amazon dice “attualmente non disponibile” siamo noi a chiamarli per assicurarci che abbiano riordinato e che avvertano la loro clientela), evade gli ordini dello shop online per assicurarsi che nessuno resti senza il libro (e questo vale più per il passaparola che per le mere vendite: se un libro è bello, chi lo vede in mano a una persona amica spesso finisce con il volerlo acquistare, è il momento in cui la qualità di un oggetto è la sua migliore pubblicità) e prepara il calendario degli eventi che servono a dare eco mediatica al prodotto e a far incontrare i lettori e l’autore. Senza dimenticare gli stand alle fiere principali del settore, per massificare l’esperienza di questi incontri, fondamentali per creare una fan base.
Ovvio, se il libro malauguratamente non interessa a nessuno niente di quanto ho elencato può assicurargli il successo, e anche per questo l’editore deve essere molto serio e responsabile nello scegliere cosa pubblicare e cosa rifiutare, ma ancora più grande è la responsabilità di essere pronto a monte del ciclo di creazione del libro ad affrontare le spese inerenti alle attività che ho elencato. Ovvio, se l’ottanta percento della clientela si trovasse su internet, non ci sarebbe motivo di dividere i guadagni con una Casa editrice: chiunque avesse un blog e un conto Paypal potrebbe vendere quasi lo stesso numero di copie senza bisogno di convincere nessuno a investire su di lui. Il lavoro dell’editore nei confronti di un autore, oltre alla cura e all’assistenza nella realizzazione del libro consiste nel focalizzare l’attenzione della parte più grande possibile dell’utenza potenziale e di portare quelle persone ad acquistare il libro. È qualcosa che un autore non potrà mai fare da solo, neanche se un domani il mercato cominciasse a basarsi interamente sugli storefront digitali.
Lo sapete qual è la domanda che ci fanno più spesso all’estero, quando vogliono capire quanto è seria BAO?
“Quanti siete, in azienda?”
Perché dando per scontato che quelle persone le dobbiamo pagare, e che quindi ci siano necessarie, il numero di addetti dà la misura del volume d’affari. La risposta, nel nostro caso, è undici persone: un editore-ufficio stampa, un direttore editoriale-responsabile dei diritti stranieri, un direttore commerciale, un caporedattore, un editor per l’infanzia, un editor per il digitale, due grafici, un responsabile amministrativo, un controller di gestione e last but definitely not least un’assistente ufficio stampa. Questo è l’organico che ci serve per trovare, contrattualizzare, far tradurre, stampare, promuovere, commercializzare e far conoscere ottanta libri l’anno. È il solo modo di fare? No. Ci sono Case editrici composte da una persona sola, che coordina una serie di collaboratori esterni e che fanno un ottimo lavoro, affrontando con successo perfino un mercato ostico e complesso come quello delle edicole. Il fatto è che non si possono fare le nozze con i fichi secchi. La struttura ha dei costi, certi, e nessuna certezza di guadagno. Ma non se ne può prescindere, soprattutto quando l’obiettivo a medio termine è l’ampliamento della platea dei lettori, che quindi si devono andare a cercare al di fuori dei circuiti già fidelizzati (sempre meglio che fondare il proprio business plan sul portare via i lettori alla concorrenza, no? A noi piace l’idea che i nostri libri diventino imprescindibili, non che vengano letti a scapito degli altri libri belli che escono).
La figura dell’editore è parecchio demonizzata, soprattutto da quanti faticano a varcare la soglia del mondo degli autori pubblicati. Siamo immaginati come aguzzini che, fasciati nella vestaglia di seta di Hugh Hefner, gozzovigliano sulle spalle degli autori, come nella parabola del ricco Epulone (che però non aveva la vestaglia). La verità è che non tutti gli editori sono in grado di creare le condizioni giuste perché un libro se la giochi sul mercato, ammesso che abbia le carte per sfondare. Quindi: si può fare a meno di un editore? Certo, senza problemi. Si possono raggiungere da soli gli stessi risultati che un buon editore può ottenere? No. È un dato di fatto.
Ma ancora una volta, è questione di non accontentarsi. L’obiettivo degli autori dev’essere creare qualcosa con il potenziale per avvincere molti, e identificare (e interessare) l’editore giusto, scelto tra quelli che sono stati capaci di generare successi in precedenza. Quella tra l’autore che il pubblico stava aspettando e l’editore che ha saputo farlo finire sotto gli occhi (e nelle librerie) di tutti è una collaborazione, una sinergia, un’alchimia. Basata sull’onestà reciproca. Se pensando al vostro editore la parola che ho appena scritto in neretto vi fa sorridere, dovete semplicemente cambiare editore.
Non avrai una seconda possibilità di fare una buona prima impressione
Questo è un mestiere fatto di storie. Quelle che ci ricordiamo da quando eravamo piccoli, quelle che vorremmo che ci avessero raccontato tanto che un giorno vorremo raccontarle ai nostri cuccioli, quelle che ci cambiano la vita quando meno ce l’aspettiamo.
Si dice sempre che non si deve giudicare un libro dalla copertina, ed è vero, ma quando è un libro a fumetti ammettiamolo: è molto più facile farsi un’idea ragionevolmente corretta di cosa ci troveremo dentro, rispetto a quando ci capita tra le mani un romanzo in prosa e ci dobbiamo fidare della IV di copertina e delle bandelle (spesso scritte da qualcuno che non ha letto il libro).
Eppure, se ci pensate anni dopo, al di là dell’ovvio e fondamentale apporto di attrazione esercitato dalle immagini, dei fumetti cari al nostro cuore ricordiamo soprattutto la storia. Il motivo principale è che per trasmettere ad altri quanto abbiamo amato quel fumetto abbiamo dovuto parlare della sua trama, del suo intreccio, della sua materia narrativa.
“Un libro racconta una storia” diceva laconicamente E. M. Forster nel suo straordinario Aspetti del romanzo. Non può non farlo.
Eppure, vendere una storia a un editore è una cosa molto difficile. Forse la più difficile dopo farsi assumere come editor. Se siete autori completi, cioè se abitualmente vi proponete agli editori con progetti scritti e disegnati da voi, non smettete di leggere. Questo discorso riguarda parecchio anche voi.
Abitualmente, il solo caso in cui un editore si interessa a un autore di fumetti senza che questi abbia proposto una storia è se l’editore ha visto il lavoro grafico di quell’autore e lo contatta per chiedergli se per caso non gli vada di fare un libro insieme. In quasi tutti gli altri casi, è l’autore a farsi vivo e deve saper ben presentare la propria storia.
Il fattore principale che deve guidavi nel comporre una proposta da inviare alla Casa editrice è il poco tempo che ha chi la riceve per valutarvi. Questo non significa trovare il modo di incoraggiare la superficialità, ma è necessario che prendiate all’amo l’attenzione del destinatario, partendo in modo breve, conciso e spettacolare.
Per fare questo, tenete a mente che ci sono storie del cosa e storie del come. Le storie del cosa sono quelle guidate da un’idea forte, un concetto base che guida tutto lo svolgimento della trama. Per esempio:
In un futuro prossimo, la mega-multinazionale che soddisfa la quasi totalità dei bisogni dei consumatori indice una lotteria per un viaggio inter-dimensionale irripetibile che permette di andare in un’altra dimensione. Scopriremo che il loro amministratore delegato lavora per un demone che intende procurarsi ignari volontari per un viaggio all’inferno, poiché le anime dei viventi sono particolarmente succulente.
A questo punto non vi resta che far capire bene la lunghezza che prevedete per la storia (che, pare banale dirlo, dev’essere quella che vi serve a farci stare agevolmente tutta la trama raccontandola con il ritmo che desiderate, non la lunghezza che vi gratificherebbe in quanto autori. Se scrivete “pensato per una trilogia di cartonati alla francese” dovrebbe significare in realtà “tra 128 e 144 pagine, divisibili in tre atti”), articolarne lo svolgimento in pochi, brevi paragrafi (oltre le tre cartelle di testo ci si spegne il cervello. Sul serio) e raccontare per bene il finale. Perché l’editore non teme gli spoiler, ma ha una gran paura delle storie che non hanno una conclusione netta, inequivocabile.
Se siete autori completi, qualche tavola di prova completa non guasta, ma in una storia “del cosa” è più importante capire dove volete andare a parare e che “vestito” darete alla narrazione che sfogliare le fasi preliminari. Dei bozzetti dei personaggi e delle matite delle vostre tavole interessa pochissimo, credetemi. State vendendo il progetto, non solo le vostre capacità tecniche.
Le storie del come sono più sottili. Non so:
Un bambino cresce con il terrore delle visite a casa dei nonni, una coppia severa che sembra uscita dal dipinto American gothic. Dopo le superiori, diventa volontario domiciliare e va a a casa degli anziani del quartiere per sbrigare piccole commissioni. Il suo vecchietto preferito comincia a raccontargli i ricordi di quando era giovane e il protagonista scopre che uno degli amici dell’anziano era suo nonno. Improvvisamente lo vede con occhi diversi, e si rende conto che molti di quei racconti rispecchiano il suo stesso tumulto interiore.
Se vi proponete soltanto come sceneggiatori, è importante che facciate capire chiaramente gli snodi emotivo-narrativi principali (se vi siete segnati il titolo del libro di Forster che ho citato prima, quando lo trovate, leggete subito il capitolo “profezia” per questo) e anche che tipo di disegno immaginate adatto alla vostra storia. Paradossalmente, la lunghezza precisa del libro è meno importante. A meno che non stiate cercando di passare sotto silenzio il fatto che vorreste farne un volume di ottocento pagine, ovviamente.
Se invece vi proponete come autori completi, ancora una volta qualche tavola, un riassunto della trama poco più lungo di quello che ho abbozzato qui io e una chiara indicazione del finale potrebbero già bastare.
Ricordatevi che non tutte le Case editrici si occupano di trovare un disegnatore a chi propone una storia. Domandatevi, e nel caso domandate educatamente, se sia qualcosa di possibile e contemplato da chi sta per leggere il vostro progetto.
Ora mettetevi nei panni dell’editore. Cercate di guardare il vostro progetto dall’esterno: come lo racconterà ai promotori librari, la Casa editrice? Sfruttando quale caratteristica cercherà di incuriosire i lettori quando lo annuncerà? Cosa potrebbe voler scrivere in IV di copertina, per invogliare all’acquisto? Rispondetevi e usate le risposte per comporre una breve lettera di presentazione, nella quale sarebbe bene che citaste anche la vostra età, il vostro background artistico, se ne avete uno, e le motivazioni che vi hanno spinto a proporre proprio quella storia proprio a quella Casa editrice.
La cosa più odiosa è il copia-incolla. Significa che state sparando nel mucchio e fa pensare chi legge che non vi aspettiate davvero una risposta. Per cui spesso non ne riceverete una e la colpa, credetemi, sarà della vostra lettera di presentazione.
Siate semplici, siate chiari, siate brevi e siate convinti di ciò che scrivete e proponete.
Sarete molto più convincenti.
Buona festa dei lavoratori a tutti.