Carta vetrata – Un umile consiglio per scrivere le storie

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Immaginate. Una mattina vi svegliate, determinati a spedire il soggetto per un fumetto a una Casa editrice. Puntate i gomiti sul materasso, e scoprite che nottetempo è diventato così viscido che le braccia vi scivolano lungo i fianchi. Non vi riesce di sollevarvi, e dopo diversi goffi tentativi scivolate a terra come anguille, e lì scoprite di non riuscirvi ad alzare, perché il pavimento è diventato come di vetro unto di sugna. Con movimenti da invertebrati riuscite ad arrivare strisciando fino al bagno, ma quando provate a issarvi in piedi aggrappandovi al lavandino le mani scivolano via e ricadete, in malo modo, a faccia in avanti sulle mattonelle. Ci provate ancora diverse volte, cercando di aiutarvi con gli strumenti/accessori/appigli più diversi, ma a un certo punto, esausti, lo ammettete: non state andando da nessuna parte.

Il motivo è che d’improvviso, nella vostra vita, manca l’attrito.

L’attrito è, in fisica, una forza che si oppone allo scivolamento di un corpo su una superficie. Per tutti quelli che vivono benissimo senza conoscere le tre leggi di Coulomb in materia, basti considerare che l’attrito radente è quello dovuto allo strisciamento di un corpo su una superficie, mentre l’attrito volvente è imputabile al rotolamento di un corpo su una superficie. Di quanto ne abbiate bisogno anche solo per uscire dal letto o alzarvi da terra credo di avervi già dato un’idea. È importante però che sappiate che anche la storia che volete scrivere ha bisogno di attrito.

Le storie hanno bisogno di conflitto, si dice in genere. Io trovo che questa parola a volte sia fuorviante, perché ha una connotazione bellicosa che, nel Fumetto, sembra voler alludere necessariamente a una qualche azione violenta. Di certo le storie hanno bisogno di attrito: di una forza che ostacoli il normale procedere dei personaggi all’interno delle vicende narrate. L’attrito è una buona analogia perché se di fondo la premessa di una storia può implicare che l’ipotetico protagonista sia ostacolato da un attrito volvente costante (per esempio: il protagonista incontra il padrone di casa, cui deve mesi di affitto arretrato, ogni volta che esce, e il lettore sa che prima o poi sarà sfrattato) la trama può riservargli occasionali situazioni di attrito radente, che costringono la storia in precise direzioni (dopo la morte del coniuge, il protagonista cade in una spirale depressiva che lo porta a [inserire scelta estrema propedeutica alla trama qui]).

(Per tutti quelli che invece le leggi di Coulomb le conoscevano, le mie scuse per aver appena messo delle parentesi quadre dentro alle parentesi tonde.)

Ci sono in particolare due tipi di storie prive di attrito manifesto che vanno evitate come la peste, se potete: quelle in cui il corso degli eventi è scontato e quelle in cui gli eventi sono una successione di cui il lettore deve prendere atto senza essere mai invitato a sperare o cercare di indovinare le prossime mosse dei personaggi.

Un esempio del primo tipo è una storia che ho recentemente rifiutato a un giovane autore con il quale ho tantissima voglia di lavorare, e che spero che presto mi manderà un altro soggetto: un ragazzo lavora come apprendista grafico, ma sogna di fare lo scultore. I datori di lavoro lo vogliono assumere a tempo indeterminato, ma lui vorrebbe invece iscriversi a un importante concorso di scultura. Non sa cosa fare. La storia finisce con il protagonista che praticamente dice: “Ora so cosa fare” ma non ci è dato sapere cosa decida. Poco male, perché si tratta di una scelta così ordinaria, così normale, che capita così tante volte nelle vite dei lettori, che non c’è molto motivo per leggere fino in fondo tutto un libro su questo argomento.

Disclaimer 1: Un giorno leggerò esattamente questa trama, ma declinata in un modo così originale ed emotivamente sconvolgente, con tali improvvise e impreviste rivelazioni sull’animo umano che ne sarò conquistato. Non era il caso di questo soggetto.

L’altro tipo di storia è quello in cui il susseguirsi degli eventi è stato deciso dall’autore in maniera apparentemente arbitraria e si procede dall’inizio alla fine prendendo atto di ogni successiva scena, senza che paia plausibile la ragione di quella specifica concatenazione degli eventi. Io le chiamo “storie a videogame” e hanno illustri e nobilissimi precedenti.

Disclaimer 2: Fa eccezione qualunque tipo di nonsense, flusso di coscienza narrativo, storia non sceneggiata scritta come esercizio di scrittura automatica o ciò che sceneggiate quando siete veramente tanto ubriachi.

Disclaimer 3: Non ho nessuna intenzione di essere ingiusto nei confronti del potenziale narrativo dei moderni videogame e so che non usano necessariamente lo storytelling “a livelli”. Giuro. Davvero.

Se proprio dovete scrivere una storia “a videogame”, la regola narrativa fondamentale è di dichiarare che si tratta di quel tipo di storia fin dal principio. Guardate Eiichirō Oda: il suo One Piece è allo stesso tempo un susseguirsi lineare di eventi che il lettore fatica a prevedere e una perfetta applicazione della regola del MacGuffin di Hitchcock (il tesoro dei pirati).

Forse l’autore che ha realizzato la storia più esemplare di questo tipo è Scott McCloud, che con un episodio di Zot! (casualmente pubblicato da BAO, wink wink!), Getting to 99, ha esemplificato nel modo migliore il bisogno di conflitto anche all’interno di una storia di cui la struttura sia interamente nota e palese fin dall’inizio.
Diciamo insomma che vogliamo raccontare la storia cui alludevo all’inizio: Il protagonista si sveglia determinato a presentare a una Casa editrice di fumetti la sua idea per una storia. Riesce ad alzarsi dal letto, perché nel suo mondo esiste l’attrito. Vediamo come si manifesta, oltre a permettergli di puntare efficacemente i gomiti sul materasso.
Lo scrittore inglese E.M. Forster, in un celebre libro sulla scrittura, Aspetti del romanzo (Garzanti) che io consulto con la frequenza con cui un curato di campagna consulta il breviario, ha scritto che due caratteristiche delle storie sono la fantasia e la profezia.

Della fantasia dice:

L’approccio più semplice a una definizione di un aspetto qualsiasi della narrativa è sempre considerare che cosa esige da parte del lettore: il romanzo richiede curiosità per la storia, interessi comuni e sentimento del valore verso i personaggi, intelligenza e memoria per l’intreccio. Che cosa esige invece da noi la fantasia? Che si paghi un supplemento. Ci obbliga a un processo di adattamento diverso da quello richiestoci dall’opera d’arte: vuole un adattamento ulteriore. Gli altri romanzieri dicono: “Ecco qualcosa che potrebbe accadere nella vostra vita”; lo scrittore fantastico ci dice: “Ecco qualcosa che a voi non potrebbe accadere. Devo pregiudizialmente domandarvi di accettare il mio libro nel suo insieme e, quindi, di accettare del mio libro alcune cose determinate.”

Forster fa presente che ci sono lettori che non accettano questa cosa, che con il fantastico hanno un pessimo rapporto, che hanno bisogno di realismo ancor più che di verosimiglianza, nelle storie che leggono, ma la fantasia è un ottimo modo per evitare un decorso narrativo banale. Proviamo:

Il protagonista si alza al mattino, con l’intenzione di presentare l’idea per una storia a una Casa editrice. Questa però, per non essere sommersa dai manoscritti degli aspiranti autori, accetta solo proposte consegnate a mano, e si trova su un altro pianeta. I soldi per un passaggio a bordo di un mercantile diretto su quel pianeta non sono un problema, anche se dovrebbe spenderli per l’affitto (attrito volvente: la quotidiana difficoltà della vita), ma quel pianeta ha tagliato i ponti diplomatici con quello del protagonista in seguito a una guerra di secoli prima, e quindi se ci andasse sarebbe arrestato immediatamente. Non gli resta che arruolarsi online nella fanteria spaziale di quel pianeta e prepararsi a partire in clandestinità, perché dall’istante in cui la sua iscrizione sarà protocollata, sarà automaticamente un nemico del proprio pianeta e dovrà sfuggire all’arresto (attrito radente: imprevisti da superare).

Già meglio, vero?
Forster dice che le storie di profezia sono, invece, quelle in cui l’esplorazione dei sentimenti prende il sopravvento, la rivelazione è più importante della scoperta, la spiritualità è più importante della fattualità. Se devo pensare a un fumetto mi viene in mente I Kill Giants, di Joe Kelly e JM Ken Niimura, che è nel catalogo BAO fin dal 2010: Barbara è una ragazzina che dice a tutti di avere in borsa il mitico martello Coveleski, capace di distruggere i giganti che potrebbero attaccare la città. Per metà della storia il lettore si domanda se Barbara davvero abbia questo potere, o se stia solamente gestendo il trauma di una difficile situazione familiare. L’esplorazione dei suoi sentimenti attraverso il modo in cui reagisce a ciò che le succede è così magistrale che gli elementi realistici dell’ambientazione sfumano letteralmente davanti ai nostri occhi, così che quando i giganti si manifestano smettiamo di domandarci se siano reali e tifiamo semplicemente per Barbara, perché vinca la battaglia che le è vitale per essere nuovamente serena.
Per restare nel nostro esempio di prima:

Il protagonista si alza un mattino determinato ad andare a presentare una storia a una Casa editrice. Stacca il cavo del caricabatterie dallo sterno, si lava, si veste ed esce. Nato con una grave insufficienza di capacità polmonare, nel suo torace è inserito un apparecchio che espande e contrae i suoi polmoni in modo corretto. La batteria del mantice artificiale ha la durata di quella di un moderno cellulare, e la storia procede con l’icona del livello di carica all’inizio di ogni capitolo. Da quando gli è successo di rischiare di morire perché un blackout a fine giornata gli ha impedito di collegarsi a una presa elettrica o di tornare a casa per collegarsi alla batteria d’emergenza, vive ogni giorno con la gioiosa rassegnazione di chi potrebbe star gustando le proprie ultime ore di vita. Proporre quella storia all’editore sarebbe il coronamento di un sogno, ma in realtà non gli importa se ce la farà o meno: sono le piccole gioie, i gesti quotidiani, la condivisione della propria condizione di essere umano tra altri umani, a renderlo felice, ogni giorno.

La storia la intitoleremo proprio “Mantice”, un po’ per l’apparecchio che la caratterizza, un po’ perché le emozioni che il protagonista prova ravvivano ogni giorno in lui il fuoco della passione per la vita.

Ecco, il consiglio è questo. Le storie contengono due classi di elementi narrativi: gli esseri umani e tutto il resto. Gli esseri umani devono interagire tra di loro e con tutto il resto. Le storie possono avere ogni tipo di struttura, e possono funzionare anche se dotate di strutture che il buonsenso editoriale di solito considera inadatte, inefficaci, poco incisive. Sta a voi dimostrare che si possono creare storie bellissime con premesse umili, o improbabili. Però comunque voi costruiate una storia c’è un elemento del progetto che non potete dimenticare, perché non lo decidete voi: il lettore alla fine della storia mette un filtro, come un setaccio, per lasciare che gli eventi ne fuoriescano liberamente e trattenere qualcosa tra le maglie del filtro. Cosa sia quel qualcosa lo decidete voi, è ciò che per attrito si stacca dalla struttura della storia in determinati punti e viene via con gli eventi, fino alla fine: una paura che all’inizio non c’era, la dimostrazione del coraggio di un determinato personaggio, una presa di coscienza inattesa, la dimostrazione tenace di un amore minacciato dagli eventi… sta a voi. Ma se non c’è attrito non c’è questo spostamento di sedimenti che diventano la ricchezza per il lettore che vi ha seguiti fin lì, e spesso non c’è motivo, o non c’è proprio modo, di leggere la storia fino alla fine.

Una storia deve fare male. A voi, ai suoi protagonisti o al lettore. Ma se fa male a due su tre siete già sulla buona strada. Se non vi fidate di me, lo dice anche Stewie Griffin.

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Un mercoledì di ordinaria editoria

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Qualche anno fa mi è stata detta una cosa molto bella, a proposito del lavoro che faccio: che quando si parla di BAO come Casa editrice l’enfasi è su “Casa”. In effetti, quando Caterina e io abbiamo fondato l’azienda, sette anni fa, l’intenzione era quella di creare un posto dove noi per primi avessimo voglia di venire ogni mattina, e che permettesse ai nostri collaboratori di lavorare serenamente. Sapevamo che in editoria la velocità e il dinamismo sono mali necessari e che se non avessimo iniziato il nostro progetto con la possibilità di una coesistenza serena in redazione, all’aumentare del carico di lavoro saremmo stati spacciati.
Molto tempo fa, su questo blog, avevo promesso di raccontare prima o poi una tipica giornata di lavoro, e molto spesso la mia preferita è quella di mercoledì, perché è quella in cui si fanno le riunioni di redazione.
Pronti? Benvenuti nella mia routine.

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Apro l’ufficio alle 8:30. Siamo soli io e il bonsai Oda Nobunaga. Faccio colazione, scarico la posta, preparo il file con gli ordini dello Shop Online da evadere nella giornata. Oggi ce n’è solo uno, ma ci sono giorni in cui sono anche dieci. A confezionarli ci pensano i membri della redazione, a seconda dei loro impegni. Di solito le operazioni legate allo Shop vengono completate entro mezzogiorno.
Alle 9:30 comincia ad arrivare la squadra, e impostiamo i lavori della giornata:

Alle 10:30 con Lorenzo, il capo grafico, e Gigi Cavenago andiamo alla Bonelli per parlare con Marina Sanfelice delle modifiche al lettering di Mater Dolorosa necessarie per l’edizione BAO di quella storia.

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La redazione di Via Buonarroti è ad appena quattro fermate di metropolitana dalla nostra sede, e dopo aver assistito all’inizio dei lavori, necessari per ottimizzare le splendide tavole di Gigi al formato nel quale stamperemo il volume (e per i quali Marina si è generosamente offerta di aiutarci) mi faccio offrire due caffè in rapida successione: il primo da Alfredo Castelli e il secondo da Vincenzo Sarno. In mezz’ora discuto di cose di lavoro che avrebbero richiesto almeno cinque giorni di e-mail e me ne torno soddisfatto alla BAO.

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A mezzogiorno arriva maicol (di maicol & mirco) perché dobbiamo fare una diretta per parlare del suo nuovo libro, Il papà di Dio, e lo intervisto in sala riunioni, a beneficio dei fan della nostra pagina Facebook.
Poco dopo lo stesso tavolo vede riunirsi la squadra per la pausa pranzo, e un’ora più tardi serve per la settimanale riunione di programmazione.

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In mesi intensi come questo preparare l’ordine del giorno della riunione del mercoledì mi prende anche due giorni di appunti. La riunione è divisa per dipartimenti: Amministrazione (per parlare di contratti, pagamenti, budget, forecast correttivi del budget, royalties per gli autori e i licensor); Commerciale (per parlare di fumetterie, librerie, tempi di consegna e di lancio dei volumi in arrivo dalle tipografie, fiere, andamento delle vendite, creazione dei copertinari per la promozione libraria e del Preview per le fumetterie); Stampa ed eventi (per parlare di inviti a ospiti italiani e stranieri, tempistiche di uscita dei libri per programmare i comunicati stampa e gli invii ai giornalisti, presenze fieristiche, tour di presentazioni) e Produzione (per parlare di impianti in arrivo dall’estero, consegne dagli autori italiani, avanzamento dei lavori di impaginazione e lettering, calendario delle riletture della redazione in vista dell’invio di libri lavorati alle tipografie). Le nostre riunioni durano dalla mezz’ora ai tre quarti d’ora, durante i quali di solito Ninja, la Beagle, sonnecchia sul divano e io imposto innumerevoli messaggi di posta inserendo solo il destinatario per ricordarmi, in seguito, a chi devo scrivere per procurare a qualcuno della squadra l’informazione o i materiali che mi ha chiesto.
A volte sottoponiamo alla redazione le diverse bozze della copertina di un libro in produzione, per discuterne tutti insieme. Il fatto che il responsabile commerciale e l’ufficio stampa partecipino a queste discussioni è fondamentale per il marketing operativo dei singoli titoli.

Alle 17:30 mi presento alla Feltrinelli di Piazza del Duomo. Manca un’ora alla presentazione del libro di maicol & mirco e io ho promesso che dedicheremo per tutto l’anno l’ora precedente agli eventi cui presenzieremo a un question time a tema libero con lettori e aspiranti autori. Essendo la prima volta me la posso prendere comoda: pochissime persone hanno voglia di parlare con me, e ben presto posso cedere il palco all’autore e al giornalista Andrea Coccia, che lo intervista davanti alla sala piena di lettori. Seguono le dediche, che terminano giusto in tempo per l’ora di cena.

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Torno in redazione verso le ventidue, a scaricare per l’ultima volta la posta e a spegnere e chiudere tutto.

Quando mi rendo conto, facendoli, che i miei gesti sono sempre gli stessi, giorno dopo giorno, da oltre sette anni, mi stupisco. Molto più di quando mi capita di ripensare a cosa pensavamo quando il nostro fatturato era un ventesimo di quello di adesso, quando eravamo in quattro a fare tutto il lavoro, quando il mondo delle librerie pareva non volerci proprio dare spazio o ascolto. Ogni giorno apro queste finestre prima che arrivino tutti. Ogni giorno accendiamo queste macchine, con le quali trasformiamo le idee in libri. Ogni giorno parliamo con gli autori, e con decine di persone in tutto il mondo che ci danno gli strumenti – la fiducia è il primo e il più importante – per portare storie sotto forma di libri sugli scaffali di centinaia di negozi in tutta Italia. Ogni giorno faccio il caffè a chiunque ne beva, e glielo porto, o lo bevo insieme a loro, come scusa per non parlare solo delle cose che dobbiamo fare, o anche solo per alzarmi dalla scrivania e riflettere.
Ogni tanto qualcuno sui nostri social legge che un certo libro uscirà, pour parler, a marzo, e commenta, spesso a ragione: “Ma non doveva uscire a febbraio?” come se stessimo parlando del regionale delle 16:47 da Albairate. Eppure l’uscita di quel libro presuppone che esattamente dieci giorni prima esso sia arrivato al magazzino di Messaggerie Libri, che almeno quindici-venti prima di quella consegna sia iniziata la stampa, che avviene dopo almeno un mese di lavorazione redazionale, che inizia solo dopo che la traduzione è stata consegnata; ma la traduzione non può iniziare se il contratto di licenza non è stato firmato, se l’anticipo e il costo dei materiali non sono stati pagati, e d’altra parte queste cose non succedono se prima non abbiamo deciso di voler pubblicare quel libro e convinto chi ne detiene i diritti che siamo la Casa editrice più adatta per farlo. E per voler esprimere questa volontà il libro lo dobbiamo scoprire, a una fiera del settore o in rete, e ci deve colpire, piacere e convincere a tal punto da decidere che potrebbe diventare uno dei circa settanta che pubblichiamo ogni anno. E tutto questo presuppone che ciascuno di noi entro le 9:30 sia in questa redazione, a dire, scrivere, spedire, rileggere, correggere milioni di parole che devono diventare solo tre: Visto Si Stampi, e dopo averle pronunciate bisogna sperare che niente di troppo grave vada a rilento. Come il regionale da Albairate, a volte arriviamo in ritardo. Diversamente da quel treno, spesso quel ritardo significa che ci siamo presi la briga di garantirvi che il libro che aspettavate fosse veramente perfetto. Quando ho scelto la giornata da raccontare in questo post non sapevo esattamente cosa sarebbe successo in quelle ore, e per fortuna si è rivelata una giornata intensa e interessante, in cui nulla è andato storto, ma ve lo assicuro, se anche fosse stata un disastro, ve l’avrei raccontata lo stesso. Perché il fatto che la maggior parte dei giorni tutto va liscio è il motivo per cui la nostra squadra è apprezzata, ma è per come salvano le giornate che minacciano di diventare tragiche che sono fiero di loro.

Sono le 22:50 e sto per salvare questo post e spegnere le luci della redazione. Domattina si ricomincia. E la settimana prossima, qui, torniamo a parlare di storie.

Cosa resterà del 2016*

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L’unica volta a memoria umana in cui Zerocalcare si sia divertito in televisione.

Avvertenza: questo posto è noioso. Parla per lo più di numeri.

Sapete qual è la cosa più difficile, dopo sette anni che lavoriamo per far crescere questa Casa editrice? Scegliere i libri. Anni fa era più semplice: andavamo di pancia, molto spesso, cercando di fare cose come non ce n’erano sugli scaffali. A volte andava benino, a volte andava male. Sapevamo che l’editoria è sperimentazione, sempre, e cercavamo di fare errori che ci insegnassero qualcosa di utile per il futuro. Così è stato, ma quando hai fatto un sufficiente numero di errori cominciano a scarseggiare gli errori che ti puoi permettere. Scopri un libro che ti piace e ti domandi se piacerà ad abbastanza persone, sapendo che se non sarà così avrai comunque degli obblighi nei confronti di chi te lo avrà stampato, di chi te lo avrà distribuito, di chi lo avrà cercato di vendere, dei tuoi dipendenti. Ogni giorno leggiamo libri e progetti e li valutiamo con entusiasmo e coscienza, ma ogni giorno ci domandiamo se l’obbligo di avere successo stia influenzando le nostre scelte.
Per quanto riguarda la seduzione dei libri “facili”, posso dire con coscienza che non ci siamo lasciati tentare. Quando pubblichiamo un libro pop, leggero, è perché ci piace davvero, non per blandire una fascia più ampia di potenziali lettori. A volte, però, rifiutiamo progetti o libri che non hanno nulla di sbagliato, ma non sono davvero per noi. In moltissimi casi non vanno bene perché non ci riconosciamo in quei lavori, sentiamo che non contribuirebbero all’identità del nostro catalogo. Altre volte, abbiamo paura che quei libri non interessino a nessuno.
Una parte di me vorrebbe poter essere l’editore che non deve preoccuparsi mai di questa possibilità, ma la verità è che non esiste, un editore così. Non preoccuparsi dell’esito commerciale di un’opera è prerogativa del suo autore. L’editore ha responsabilità molto ramificate. E ha una montagna molto impervia da scalare.

Un recente studio sulle abitudini di acquisto degli italiani ha rivelato che quasi il 20% dei nostri connazionali non spende denaro per nulla che sia considerato culturale. Mai. Significa che una persona su cinque di quelle che incontrate ogni giorno in un anno non compra un giornale
non compra un libro
non va al cinema
non va a teatro
non va a un concerto
non visita un museo o una mostra
non va allo stadio
non va in discoteca.

[Pausa: Sì, nello studio ci sono anche lo stadio e la discoteca. Chi lo ha fatto voleva disperatamente includere, in qualche modo, tutti, ma proprio tutti. E UN QUINTO DELLA POPOLAZIONE è riuscito comunque a sfuggire ai parametri di indagine. Riflettiamo.]

Visto che è assolutamente certo che queste persone non leggono questo blog (oddio, non è detto: è gratis. Magari il problema è quello) potrei dirne tutto il peggio, ma in realtà a me quelle persone interessano moltissimo. Perché voglio credere che prima o poi riuscirò a vendere loro un fumetto.
Questo post è un rapporto dal fronte più strano e imprevedibile, il più avanzato in territorio babbano di tutto lo sforzo bellico dell’industria del Fumetto: quello delle librerie generaliste. Quello dove gente che era entrata per comprare un romanzo a volte esce con (anche) un romanzo grafico.
Di quanta gente stiamo parlando, di preciso? Beppe Severgnini dice che probabilmente i fruitori di cultura in Italia sono cinque milioni di persone. La guerra non convenzionale che editori come BAO stanno conducendo ha un duplice scopo: far sì che sempre più persone tra quelle che sono disposte a comprare un libro a volte ne comprino uno a fumetti e portare sempre più persone in libreria e in fumetteria.
Non è una cosa facile, ma piano piano a quanto pare ci stiamo riuscendo.

La foto dell’anno, per me, resta quella della fila in Galleria Vittorio Emanuele a Milano la sera dell’11 aprile, in attesa dell’apertura serale della Feltrinelli Duomo per l’anteprima di Kobane Calling. Oltre duecentocinquanta persone, dall’ingresso della libreria fino a Piazza della Scala. E l’autore non c’era (lo ricordo bene perché era con me, a Roma, ad affrontare una scena analoga, che si è conclusa alle 4:20 del mattino dopo aver dedicato circa settecento copie del libro.)
Da quel momento, non c’è stato un solo operatore commerciale nel mondo del libro che non si sia interessato a noi e al nostro lavoro, l’anno scorso, e questo ha fatto bene anche a novità meno visibili ed eclatanti e al catalogo.

Nel 2016 abbiamo mandato in stampa 74 libri. (Il capo grafico mi informa che il mese più produttivo è stato settembre, con 8 titoli prima edizione e 9 titoli in ristampa, mentre il mese più scarico è stato marzo, con 3 libri in prima edizione e 1 libro in ristampa.)

Stando al piano editoriale avremmo dovuto stampare in tutto 349.000 copie dei titoli previsti, ma nel corso dell’anno si sono rese necessarie 86.500 copie di ristampe, suddivise tra ventiquattro titoli diversi. Questo è un numero molto incoraggiante, soprattutto perché non ha riguardato solamente i libri di prevedibile successo.

I libri di autori italiani sono quelli che hanno avuto il migliore aumento di performance, l’anno scorso. Se cinque anni fa la tiratura base per un titolo italiano era di duemila copie, quest’anno la maggior parte ha avuto tirature di partenza di tremilacinquecento copie e, spesso, ristampe entro pochi mesi.

Un capitale che il mondo del fumetto porta all’editoria generalista è la fedeltà del suo pubblico. In Italia sei considerato un lettore forte se compri sei-otto libri in un anno. Pensate a quanti fumetti comprate in un mese. Voi siete lettori fortissimi, invincibili. Ecco perché non devono stupire i risultati lusinghieri dei nostri titoli migliori.
I top seller dell’anno sono stati Kobane Calling, con quasi novantamila copie da aprile, Il buio in sala di Leo Ortolani, con poco meno di ventimila, Il suono del mondo a memoria di Giacomo Bevilacqua e Fight Club 2, che sfiorano le diecimila ciascuno, Saga Volume 6 e Da quassù la terra è bellissima, di Toni Bruno, rispettivamente con seimila e cinquemila copie vendute. Il porto proibito, che era uscito a maggio del 2015, nel 2016 ha venduto, tra la vecchia e la nuova edizione, altre quattromila copie.
Il nostro venduto, in libreria generalista, è aumentato circa del 20%, dall’anno precedente.

Dopo aver cambiato distributore per le fumetterie e aver implementato il catalogo Preview insieme alla Sergio Bonelli Editore, il nostro venduto in fumetteria è aumentato del 6%. La cosa più importante è che il catalogo, cioè i titoli degli anni precedenti, è diventato di più facile reperibilità, e questo è il primo sintomo della possibilità di migliorare realmente il numero di lettori che ci comprano in fumetteria. C’è ancora molto da fare, ma con paciencia y con carinho continueremo a lavorare per migliorare la situazione.
L’anno scorso il nostro Shop online ha registrato un calo di vendite, perché abbiamo deciso di avere meno prodotti in esclusiva, proprio per non penalizzare chi ci vende ogni giorno.
Per completezza di informazione, sappiate anche che le edizioni in digitale dei nostri titoli hanno visto un aumento delle vendite del 16% e le vendite alle fiere del 50% (la nostra Top 3 delle fiere, in ordine decrescente: Lucca Comics & Games, Salone del libro di Torino e Più Libri Più Liberi a Roma).

Il mercato del Fumetto nelle librerie generaliste nel 2016, in generale, ha visto una crescita del 16%, e ora vale quasi dodici milioni di euro l’anno. I fumetti in libreria sono circa il 9% del totale dei titoli di narrativa disponibili, ma in termini economici il mercato dei fumetti in libreria generalista vale circa l’1% del totale dei libri venduti nell’anno. C’è ancora molta strada da fare.
In questo anno appena concluso si sarebbe potuti crescere di più, ma un paio di Case editrici importanti per il mercato librario sono in una fase interlocutoria, per ragioni interne, e probabilmente questo ha limitato l’espansione del mercato, che si è comunque comportato in modo incoraggiante e soddisfacente.

Se siete arrivati a leggere fin qui nonostante sia ormai palese che l’avvertenza iniziale diceva il vero, vi domanderete perché io affronti solo i dati relativi alle librerie. Il motivo è duplice: in primis, BAO non vende in edicola e per le fumetterie sappiamo solo i dati che riguardano la nostra Casa editrice; in secundis, per il momento le librerie generaliste (e in piccola parte la GDO, la grande distribuzione, che riguarda pochissimo i fumetti) sono i luoghi dove è più probabile intercettare chi ancora non pensava di voler leggere fumetti o, preda ancora più preziosa, chi non pensava di poter spendere dei soldi per una cosa rettangolare fatta di fogli di carta stampati e tenuti insieme da una rilegatura su un lato. Sono loro, per noi, l’unicorno.
Ogni volta che convinciamo qualcuno che i fumetti non si comprano solo in edicola nei mesi estivi
ogni volta che portiamo un lettore occasionale in fumetteria per la prima volta
ogni volta che convinciamo un lettore di romanzi in prosa a non diffidare del Fumetto
ogni volta che dopo una presentazione un lettore ci confida che era la prima volta che veniva a un evento del genere
ogni volta che qualcuno compra due copie di un nostro libro perché “una la devo regalare”
registriamo una piccola vittoria. I numeri sono solo numeri, servono a farci prendere sul serio da chi deve capire che abbiamo sempre fatto sul serio.

Dopo sette anni non possiamo permetterci di scegliere di pubblicare un libro senza pensare alle conseguenze di quella scelta, ma continuiamo a sperimentare, e a prendere a spallate la nicchia in cui dieci anni fa era relegato il Fumetto nel discorso culturale italiano. Ora la nicchia è un piacevole trilocale e intendiamo continuare la ristrutturazione. Grazie per l’aiuto che ci date leggendoci, criticandoci, costringendoci a inventare sempre cose nuove per meritarci la vostra attenzione.
Il dato più importante, per me, è che mi fate ancora venire più spesso voglia di sorridere che di bestemmiare. Sarà un 2017 di fumetti meravigliosi.

* Perché non posso sempre citare poeti misconosciuti di inizio Novecento. Quindi oggi vi beccate Raf.

Catch me if I fall – Un buon editor guarda i funamboli dal basso

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Due pagine di storyboard di Asaf Hanuka per il secondo capitolo del libro che sta realizzando con Roberto Saviano, di cui sono l’editor. (Dialoghi provvisori)

In una raccolta del 1944, il poeta William Carlos Williams ha scritto la frase per la quale è forse più famoso: No ideas but in things; non vi sono idee se non nelle cose. Era vero della sua poesia, non è detto che valga per tutto e per tutti, ma i fumettisti lo sentono visceralmente, infatti i loro racconti sono dei costrutti, degli oggetti concettuali, che contengono idee che si articolano in storie.

Costruire una storia, per certi versi, non è diverso dal costruire una sedia: si può imparare osservando altri falegnami al lavoro, smontando le sedie che si hanno in casa, e poi provando e riprovando a costruirne di proprie. Le prime non saranno stabili o solide, ma è possibile imparare a costruire sedie degnissime, non solo funzionali, ma persino belle e non solo belle, ma addirittura capaci di ispirare le sedie di altri falegnami, senza aver mai preso una lezione specifica per imparare il mestiere.
Non tutte le sedie sono comode. Molte di quelle che sono degne di essere esposte nei musei non lo sono, ma sono lì perché hanno contribuito in qualche modo originale e fondamentale a far progredire il Grande Discorso Culturale Fondamentale sulle Sedie.
Ecco, certi falegnami hanno moltissimo talento, ma si esprimerebbero anche meglio se avessero un editor: uno che si è seduto su tantissime sedie, sa come renderle più comode e più solide, sa quali sono più richieste, ma non per questo disdegna le virtù di certe sedie per le quali c’è poco mercato, ma che hanno caratteristiche particolari, che le sedie comuni non possiedono.

Come per le sedie, l’editing delle storie a fumetti va fatto al novanta percento prima di cominciare a costruire, perché se poi la storia viene sbilenca e ha le giunture fragili, hai voglia a rimediare a cose fatte (ovvero a tavole disegnate).
Quindi quando un autore manda il soggetto di una storia, l’editing ha inizio. Ecco come succede nella nostra redazione e ovviamente questo non è il solo metodo, non è neanche il solo metodo che usiamo noi, e questo post non vuole darvi a intendere in alcun modo che dovreste fare così. È solo come funziona da noi e per noi.

Il soggetto viene messo alla prova facendo domande all’autore sugli aspetti che ha sviscerato di meno, e gli chiediamo di espandere il testo quanto basta perché tutti gli snodi narrativi e le evoluzioni emotive siano descritte in modo da farci capire come procede la storia, dalla premessa al suo finale. In pratica, quando nessuna frase di un soggetto ci fa venire voglia di chiedere “Perché?” il soggetto è approvato.

A questo punto le cose si fanno particolarmente delicate. La regola più importante della nostra redazione, per quanto riguarda i progetti originali che seguiamo dall’idea alla stampa, è di interferire il meno possibile con la creatività dell’autore (o degli autori), garantendogli però un’attenzione al suo lavoro che ci consenta di avvertirlo se sta facendo qualcosa che ci sembra distonico rispetto alla sua intenzione originale. Noi non chiediamo mai all’autore di darci una sceneggiatura completa (e in sette anni credo che la sola persona che abbia insistito per mandarcela – e intendo per posta, stampata e rilegata, in due corposi fascicoli – sia stato Alessio Spataro, per la lavorazione di Biliardino), ma abbiamo bisogno di una versione espansa del soggetto, un trattamento, se volete, per conoscere passo per passo le sequenze che l’autore intende inserire nella storia. Questo ci consente, quando ci farà vedere un gruppo di tavole consecutive, di dire cose tipo: “Ehi, qui hai cambiato soluzione, rispetto al trattamento!” Al che di solito ci sentiamo rispondere: “Sì, trovo che così funzioni molto meglio” oppure “Oh, caspita, hai ragione, Sagace Editor! Devo rifare queste tre pagine!” In entrambi i casi, la nostra opera di tutela delle sue intenzioni sarà stata efficace.
A volte sono necessari interventi minori, aggiustamenti di meccanica narrativa, che a raccontarli potrebbero far venire il dubbio che certi autori siano veramente distratti. La verità è molto diversa, e non ha a che vedere con l’abilità, il talento o il mestiere.
Alcuni autori creano affreschi così complessi che la lunghezza delle loro stesse braccia impedisce loro di lavorare a una distanza (metaforica) sufficiente dall’opera da consentire loro di vedere tutta la storia a colpo d’occhio. Per questo hanno bisogno di qualcuno che stia qualche passo più indietro, a far notare loro quando qualcosa ha proporzioni strane, o starebbe meglio in un’altra posizione.
Spesso questi interventi avvengono a livello di storyboard, quando cioè l’autore sta studiando il ritmo, sviluppando i blocchi narrativi della storia e negoziando gli spazi sulle singole tavole. In quella fase è più facile, per l’editor, sollevare dubbi o indicare punti che potrebbero essere risolti in modo più efficace. Nella mia esperienza, è anche la fase nella quale spesso l’autore è più disposto ad ascoltare, perché quando sta realizzando l’intero storyboard di un libro è l’autore per primo a mettersi in dubbio, ed è spesso contento di avere un riscontro dall’editor, che in fondo è una forma specializzata di lettore precoce.
Io ho suggerito una pagina a Zerocalcare, circa un anno fa, di una banalità disarmante, ma che gli ha risolto un problema: per creare il senso del passaggio del tempo dopo una scena in Kobane Calling in cui il suo personaggio deve spegnere il cellulare e sta per esserci un flash forward, gli ho suggerito di aggiungere una pagina di stacco nera, con al centro l’icona della batteria in ricarica tipica dei telefoni portatili. Narrativamente non ho alterato in nulla ciò che voleva dire, ma gli ho dato un’idea per trasmettere meglio il senso dello stacco temporale tra due scene. Lavorando ai due blocchi narrativi nello stesso periodo, non gli era venuta in mente questa cosa, assolutamente alla sua portata, ma che aveva bisogno di uno sguardo a mente fredda per essere messa a parole.
Quasi mai ci è successo di chiedere correzioni o modifiche sui disegni finiti di un libro. In altre Case editrici succede regolarmente, ma noi interveniamo solo se proprio un autore non si è accorto di una palese svista, e va detto che in sette anni ci è successo sicuramente meno di cinque volte.

Un romanziere scrive nella solitudine del proprio studio, indisturbato, in balia delle idee e dell’ispirazione, di intenzioni non alterate da alcuna influenza esterna. Poi consegna il manoscritto ed è possibile che il suo editor lo trasformi in qualcosa di completamente diverso (avete mai letto la prosa di Carver prima che ci mettesse le mani Gordon Lish?).
Viceversa, uno sceneggiatore cinematografico scrive tutto un film, che poi viene modificato più volte da più mani, e poi in fase di riprese emergono istanze che portano a ulteriori modifiche e insomma, dal momento in cui la sceneggiatura è terminata la lotta per proteggerne l’integrità dell’idea finisce solo in sala di montaggio.
Il Fumetto è a metà: non subisce tutte le interferenze dall’esterno di un film, ma non sempre nasce nel totale solipsismo della scrittura in prosa. Cioè, può, ovviamente; all’inizio abbiamo parlato di falegnami indipendenti e autodidatti bravissimi, ma a volte a un falegname viene voglia di andare da una fabbrica di sedie di cui stima i prodotti e dire: “Voglio fare una sedia per voi. La vorrei fare così e così. La volete? Mi guardate mentre la faccio, così mi aiutate a farla bella come le vostre altre sedie, ma mia, proprio mia, che si veda in ogni dettaglio che è mia?

A volte gli autori sono contenti dei suggerimenti, delle critiche, dell’editing. Altre volte si arroccano sulle loro posizioni e temono che cambiare quel singolo dettaglio comprometterà l’integrità della loro opera. A volte hanno ragione, e l’editor cede. Altre volte hanno torto, si affezionano più all’abbozzo iniziale della loro opera di quanto sarebbe utile per restare obiettivi sulla sua efficacia, e in questi casi a volte vince l’editor, a volte no, perché un autore scontento è una cosa molto più grave di un libro imperfetto, ma onesto e pieno di cuore.

Ecco, il lavoro dell’editor richiede molta diplomazia, altrettanta psicologia, la capacità di mettersi in dubbio e di far mettere in dubbio l’autore, devozione alla storia e soprattutto al suo cuore emotivo, che è la cosa che solo il Fumetto tra tutti i media narrativi è capace, quando è fatto bene, di esprimere con trasparenza assoluta. Il lavoro dell’editor richiede anche la capacità di ammettere che non si è adatti a fare l’editing di un certo libro, per mancanza di affinità umana con l’autore, o con i temi, o con lo stile narrativo.
Noi in BAO, per esempio, ieri abbiamo fatto una riunione proprio per ripartirci l’editing dei titoli originali previsti per il 2018. E non è bastato fare la lista e assegnare ogni libro a qualcuno: su un paio di titoli ancora ci stiamo interrogando, e vogliamo assicurarci che abbiano la persona giusta a proteggerli, a perfezionarli, a farli esprimere al meglio.
Quando riusciamo a far capire ai nostri autori che abbiamo a cuore la stessa cosa, che sappiamo che ogni libro fa storia a sé e che non abbiamo nessuna intenzione di farli con lo stampino, che siamo lì per loro, ma che non vogliamo fare nulla al posto loro, allora abbiamo vinto. E quando questa sintonia tra chi racconta la storia e chi ne agevola la trasformazione in un libro stampato è forte, i libri escono più belli.
Quando ad aprile dell’anno scorso alcuni colleghi hanno preso in mano davanti a me Da quassù la terra è bellissima di Toni Bruno, che è il suo quarto libro, ma rappresenta un balzo qualitativo immenso rispetto ai suoi lavori precedenti, mi hanno chiesto, in modo molto diretto, con ammirazione e curiosità: “Che cosa gli hai fatto?”
Io ho fatto spallucce e ho detto la verità, che è vera ancora adesso, nove mesi e seimila copie dopo: “L’ho fatto lavorare sereno.”
La magia l’ha fatta Toni. Io ero solo qualche metro sotto, pronto a prenderlo se fosse caduto. E, forse proprio perché sapeva che io ero lì, lui non è caduto.

Su questo tema ci torneremo, tra un paio di mesi, con un post di esempi pratici su libri veri.

Proposte indecenti

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Questo è un post motivazionale. O vi mettevo “Ricominciamo ” di Adriano Pappalardo, o “I’ll make a man out of you” da Mulan, ma trovo che il sergente istruttore di Ufficiale e Gentiluomo sia sempre un’ottima scelta, per queste cose. 

Se davvero devo scrivere cinquanta post di questo blog, nell’anno che è appena iniziato, è davvero il caso che cominciamo dalle basi.

Nel 2016 BAO ha ricevuto circa duemilacinquecento progetti con richiesta di pubblicazione, spediti alla casella della redazione da aspiranti autori. Quando abbiamo aperto l’Open Call per i titoli della rinnovata linea per giovani lettori BaBAO, sono arrivati altri quattrocento progetti.

C’è uno spazio selvaggio e indefinito, tra dove vi trovate voi che volete Cliff sulla copertina del vostro primo (o prossimo) libro e la mia scrivania. Coprire quella distanza è compito vostro, accogliervi all’arrivo è il nostro. Noi ci auguriamo che anche quest’anno ci scriviate in molti, e faremo del nostro meglio per reagire prontamente (anche se il nostro lavoro primario è fare i libri che sono già calendarizzati, quindi armatevi comunque di molta pazienza, potremmo metterci qualche mese a rispondervi). Già che ci siamo, però, vi lascio qualche considerazione potenzialmente utile, più per farvi capire cosa dovreste cercare voi che non cosa cerchiamo noi.

  1. Se la lettera che accompagna il vostro progetto vi fa sembrare maleducati o matti, non vi risponderemo. Il modo in cui vi ponete nei confronti di quello che vorreste diventasse il vostro editore dice molto del vostro modo di lavorare. Se possiamo evitarci il fastidio di lavorare con persone sgradevoli o completamente pazze, lo facciamo. Questo è il SOLO caso in cui proprio non rispondiamo a una mail.
  2. Ci sono delle regole generali per inviare un progetto. Non è che vi ignoriamo per dispetto se voi ignorate loro, ma se le seguite la nostra vita sarà leggermente meno complicata e vi vorremo immediatamente più bene.
  3. Dovreste scrivere le storie che avete veramente voglia di raccontare. Però se la vostra pulsione narrativa più forte è raccontare una nuova interpretazione di qualcosa che è stato fatto alla nausea negli ultimi decenni, fatevi un favore: lasciate perdere.
  4. Se avete in mente una storia post apocalittica in cui una ragazza bionda con i capelli scalati in modo bizzarro scopre suo malgrado di essere la prescelta per sarcazzo: ma anche no, grazie.
  5. Se avete in mente una storia intimista, un romanzo di formazione la cui caratteristica è di essere ambientato in provincia: vedete punto 4.
  6. Se state cercando di creare una storia che pensate piacerebbe ai lettori di qualcosa che è attualmente in corso di pubblicazione, pensateci bene: potrebbe avere senso, ci sono storie che si ascrivono a generi o a stili narrativi che non passeranno mai di moda, ma se iniziamo a lavorare ora a un libro insieme, uscirà tra almeno due anni. Pensate che la vostra idea sarà ancora attuale? Se la risposta che vi date è sì, perfetto, vi aspettiamo.

Ecco, questa cosa è molto importante. A volte ho la sensazione che anche le scuole di fumetto tendano a ignorarla, ed è comprensibile: il Fumetto è meritocratico, il diploma di una scuola non dà diritto a nessun canale preferenziale per accedere a questa industria, quindi la tendenza generale è a preparare per l’inserimento professionale negli ambiti dove c’è più bisogno di manodopera: i comics americani, la Sergio Bonelli Editore. Quindi spesso chi non si conforma a un certo modo di narrare (tanto nella scrittura quanto nel disegno) fatica a completare il corso di studi con successo, ma non è detto per questo che non valga: magari ha semplicemente un approccio diverso dal modo di narrare attualmente in voga. Sarebbe bello che le scuole di fumetto sfornassero più autori e meno automi, cosa che riesce a quegli insegnanti che riescono a pensare fuori dagli schemi e fuori dai generi. Anche perché mica tutti i generi sono perennemente praticabili, dal punto di vista commerciale, eh. Il che ci porta a

  1. Spedite progetti pensati per l’editore al quale vi rivolgete. Mandare una proposta di pubblicazione a una Casa editrice non è come spedire un curriculum a più aziende. Non basta personalizzare l’intestazione. Un progetto “per tre cartonati alla francese” mandatelo in Francia, non a BAO. Non sappiamo cosa farcene di volumi da 48 pagine, semplicemente perché il mercato chiede volumi più corposi, e possibilmente autoconclusivi. (Ci sono eccezioni, ovviamente, ma se devo scegliere tra una serie di Brian K. Vaughan, e una di un Tony Siracusa*, per il mio prossimo piano editoriale, oddio, uhm, fatemi pensare, questa è difficile…)
  2. Sarete anche cresciuti con Linus, ma se il vostro progetto è a strip non ha alcun senso. Ripensatelo in un formato narrativo più fluido, perché tanto non verrà mai pubblicato una striscia alla volta.
  3. Le storie puramente comiche sono passate di moda. Ci sarà sempre spazio per sprazzi di geniale comicità, in editoria, ma fidatevi: è passé come un disco dei Milli Vanilli.

Ecco, la cosa dei generi è tricky da spiegare. Non ci sono assoluti. Per esempio, alcuni dei migliori autori italiani con cui BAO lavora stanno facendo storie di fantascienza. Francesco Guarnaccia ne sta realizzando una (fantascientifica nella premessa, ma umana e introspettiva nelle tematiche narrative), Nicolò Pellizzon è al lavoro su una tetralogia di fantascienza epica (sfatando in un colpo solo due delle cose che ho scritto prima: è tecnicamente una serie e appartiene a un genere che in BAO abbiamo praticato sempre poco). Matteo De Longis, per il suo primo lunghissimometraggio a fumetti, ha scelto una space opera (musicale). Il prossimo biennio sarà pieno di storie ispirate alla fantascienza, fidatevi. Non solo quelle che pubblicheremo noi. Quindi, in fin dei conti, mai dire mai. Però tenete presente una cosa che vi spalancherà molte porte (se il vostro lavoro vale):

  1. Questo è il momento delle storie all-ages. Quelle adatte a più fasce d’età, ma sicuramente non troppo adulte nelle tematiche. La vostra stella polare in questo frangente dovrà essere Bone, ma se volete qualcosa di più recente, pensate a quanto importante è stato, in tutto il mondo, Nimona di Noelle Stevenson: una storia pensata per le adolescenti, ma che parla proprio a tutti, perché tocca temi classici in modo innovativo e originale.

Ne abbiamo parlato, prima che io scrivessi questo post: si sta affermando una nuova generazione di autori, in questo momento. Per anni ha cercato una voce, una forma. L’Homo Barbuccicus è evoluto in Homo Pedrosicus e ora sta diventando… Steven Universe.

Non fate quella faccia, è vero. La generazione che sta prendendo d’assalto il mercato, stilisticamente e narrativamente, è quella influenzata da Adventure Time, da Steven Universe. Lo zeitgeist del Fumetto moderno ha le sopracciglia folte e grandi occhi tondi. E in Italia l’artista che al momento rappresenta, secondo noi, la summa artistica della sensibilità narrativa moderna, è Gio Pota.

Gio è il prossimo caposcuola, the next big thing, l’apice delle tendenze di segno, storytelling, mood emotivo cromatico.

Ecco, se dal paragrafo precedente avete evinto che fareste meglio a disegnare come lui, non avete capito il resto di questo post. Gio è venuto su a pane e cartoni animati, ed è diventato un artista della Madonna. Non si è preoccupato di cosa andava di moda, ha lavorato su di sé, sul proprio metodo di narrazione visuale, lasciandosi influenzare dalle cose che amava. E tra quattro mesi lo vedrete esplodere in un libro memorabile.**

Queste considerazioni non avremo il tempo di farvele quando vi risponderemo, dopo aver ricevuto i vostri progetti, ed è un peccato, perché il nostro mestiere non è rifiutare le proposte degli aspiranti autori, ma pubblicare libri belli, e questo succede anche se ci prendiamo la briga di spiegarvi cosa non va e come migliorare. È per questo che per tutto l’anno, a tutti gli incontri in libreria e fumetteria cui parteciperà direttamente un membro della redazione, un’ora prima di ogni evento o presentazione daremo appuntamento agli aspiranti autori per un question time a trecentosessanta gradi. Potrete chiederci quello che vorrete, ed eventualmente lasciarci i vostri progetti direttamente. Speriamo che sia un primo passo per un migliore dialogo tra noi. Vogliamo, con tutti noi stessi, che ci stupiate.***

 

* Tony Siracusa, per indicare “Pinco Pallino”, è una creazione di Marco Schiavone.
** Scritto da Luca Vanzella. Si intitola Un anno senza te. Ne riparleremo.
*** Ovviamente se avete domande fin da ora, commentate questo post, io vi risponderò sempre. Tranne se ricadete nel punto 1.