Costruire una copertina – Prima parte

Questo post è il primo di tre che si occuperanno di un tema editorialmente spinoso e sul quale è stato detto di tutto, nei decenni: le copertine. Partirò da un esempio virtuoso, poi esplorerò le esigenze editoriali e autoriali nei confronti della copertina di un libro, per poi concludere cercando di delineare dei princìpi-guida, che ovviamente non sono regole infallibili o assolute, e saranno comunque molto specifici all’editoria del Fumetto.

Non so se ci avete mai fatto caso, ma ci sono due tipi di proverbi: quelli basati sul buonsenso e sull’osservazione empirica (Rosso di sera, bel tempo si spera, oppure Chi dorme non piglia pesci) e poi ci sono quelli sulle aspirazioni morali, che a volte secondo me sono più difficili da difendere. L’abito non fa il monaco è una bellissima verità, filosoficamente, ma è anche vero che in generale, se ti vesti bene, chi deve fidarsi di te è più incline a farlo. In inglese questo proverbio ha due equivalenti: per dire che a volte l’apparenza trasandata nasconde qualità umane superiori all’aspetto si dice The clothes don’t make the man, mentre per cautelare dal facile entusiasmo nei confronti di qualcosa di attraente, ma non per forza di valore (un po’ come il nostro Non è tutto oro quel che luccica), si dice You can’t judge a book by its cover.
E in effetti non dovremmo giudicare un libro dalla copertina. Però lo facciamo sempre.
La copertina di un romanzo in prosa ha il diritto, in molti casi, di essere un non sequitur concettuale, perché in molti casi è la sola immagine associata a quel libro, mentre nel caso dei fumetti la responsabilità della copertina è immensa, perché deve essere non discordante rispetto allo stile grafico dell’interno, che il potenziale lettore ha modo di conoscere anche semplicemente sfogliando il volume in negozio, prima di portarlo a casa con sé.
Sfogliare un fumetto che non si conosce dà al potenziale acquirente molte più informazioni di quante non ne dia un romanzo in prosa. Si ha la sensazione di conoscerlo già, ed è per questo che è così importante che la copertina non tradisca le sensazioni che il libro ha trasmesso di primo acchito a chi lo ha preso tra le mani.
Quando è venuto il momento di creare la copertina di Da quassù la terra è bellissima, il più recente romanzo grafico di Toni Bruno, c’era da considerare una serie di problematiche: il libro parla di cosmonauti, di traumi psicologici e della guerra fredda. Cercare di comunicare tutte queste cose in una sola immagine poteva essere un’impresa.
Sapevamo che al centro di tutto ci doveva essere Akim, il cosmonauta, per una serie di ragioni: è uno dei due protagonisti assoluti della storia ed è un personaggio con la cui presenza è facile empatizzare.

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Nei fumetti italiani è fondamentale la presenza di una figura umana in copertina. Le copertine simboliche, di solo design, generano meno empatia e meno interesse, con l’eccezione di quelle che abbiano il nome di un autore amatissimo sopra. La rispondenza del contesto della copertina alla trama è relativamente meno importante, ma per quanto ci premesse trasmettere il senso di alienazione che Akim prova dopo la sua missione spaziale, ci dovevamo arrendere al fatto che nel libro non lo si vede mai nello spazio.

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Anche la soluzione pregna di pathos emotivo era da scartare: la storia di Toni è emozionante, ma come lo è L’attimo fuggente, non come Aliens. C’era bisogno di trovare un equilibrio tra il mondo da cui Akim è stato traumatizzato (lo spazio) e quello nel quale si sente allo stesso tempo bloccato e fuori posto (la terra).

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Dopo un tentativo concettuale (una stanza che potrebbe essere un abitacolo spaziale, ma che in realtà si apre su un normalissimo cortile terrestre) e uno psicanalitico (Akim sulla poltrona di casa, ma nello spazio)

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ci siamo resi conto che potevamo usare l’abbigliamento di Akim per dire “spazio” e che potevamo usare lo sfondo per dire “guerra fredda” o almeno “anni Sessanta”.

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La stupenda finezza narrativa di questo bozzetto è che la cucina è a gravità zero, ma il solo che sembra attrezzato per il cosmo ha i piedi incollati per terra, perché non riesce a volare. Dal punto di vista contenutistico, c’era tutto quello che volevamo, ma non soddisfaceva la mia regola dei tre metri.

La regola dei tre metri è la teoria provocata dalla mia terrificante miopia: se passo tra gli scaffali in libreria e la copertina di un libro non mi attira da una certa distanza, non ha fatto il suo lavoro e non è colpa mia se ignoro una storia potenzialmente stupenda. Nel prossimo post parleremo un sacco della regola dei tre metri, perché ragioneremo di parametri generali e finiremo per sbatterci contro ogni volta che crederemo di aver evinto una regola per creare buone copertine. Nel caso di questo bozzetto di Toni, non c’era alterazione cromatica o di illuminazione che potesse rendere questo disegno impattante come serviva per assicurare l’attenzione del pubblico tra gli scaffali delle librerie.
Quindi:

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Ecco. La sensazione di un crash landing, di un atterraggio imprevisto, dal cosmo direttamente nell’America rurale degli anni Sessanta (che strizzava l’occhio al fatto che Akim è russo, ma Jones è americano, e le due realtà sociali collidono nella storia). La postura fisica di Akim che sembra volersi scusare dell’intrusione. La sensazione di un’entità aliena che trafigge la quotidianità, e che allo stesso tempo trasmette un disagio. C’era bisogno di lavorare sulla posa del personaggio, cosa che Toni ha subito fatto.

Da quassù prova pose per cover

E poi c’era bisogno di spostare la staccionata perché ingombrasse meno e liberare spazio perché il logo BAO non avesse scomode tangenze con elementi del disegno. A volte non ci preoccupa mettere il logo in IV di copertina, ma ben più seria della mia regola dei tre metri è la regola dell’un-due-tre, quella che decreta quali tre elementi vengono notati da chi guarda una copertina. Sapevamo che il nome di Toni era poco noto ai più, quindi non sarebbe stato uno degli elementi notati per primi. Sapevamo che si sarebbero visti, nell’ordine, il disegno, il titolo e il logo BAO, del quale i lettori ormai si fidano, soprattutto quando non conoscono già il libro che hanno tra le mani.

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Quando ho avuto questa bozza ho capito che il libro al quale Toni aveva lavorato due anni, e lungo tutta la cui lavorazione ero stato al suo fianco, sarebbe stato un successo: perché che era bello lo sapevo da sempre, ma non potevo avere la certezza che i potenziali lettori ci si sarebbero avvicinati. Quando ho fatto vedere questa bozza in redazione ho avuto solo reazioni di entusiasmo. Nessuno ha sollevato dubbi. Toni ha avuto subito luce verde.

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Ho voluto cominciare questo lungo discorso sulle copertine con un caso in cui tutto è andato liscio e la visione dell’autore è coincisa con quella dell’editore e della redazione. Ringrazio Toni Bruno per avermi permesso di usare questi bozzetti inediti, e la settimana prossima parleremo di tutto ciò che può andare storto in una copertina. Perché ci sono libri che non parlano di avventura, ma creare la loro copertina è quasi sempre un’avventura.

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Dieci motivi per cui hai bisogno di più marketing nella tua vita (editoriale)

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Questo post nasce dalla mia frustrazione derivante dall’uso improprio della parola marketing. Poiché chi ama i libri si ritiene un paladino della cultura, in Italia vige la falsa contrapposizione tra opere che si affermano per il loro valore e opere che “sono solo operazioni di marketing”. Quando BAO propone una nuova edizione di un libro molto amato, viene accusata “di farlo solo per il marketing”. Visto che il termine significa, letteralmente, “portare qualcosa verso il mercato”, forse è il caso di spiegare a chiare lettere perché non sia né una tecnica ipnotica implementata la quale voi ignari consumatori non potete fare a meno di comprare qualcosa che in realtà non volete, né soprattutto mera pubblicità.
Eccovi allora dieci motivi per cui, se lavorate in editoria, dovreste volere bene al marketing.

Dieci: Il marketing editoriale si compone principalmente di tre fasi di lavoro: il marketing analitico, che analizza il mercato, le sue tendenze, le aree sature e quelle neglette e vi aiuta a situare l’azienda nel contesto economico esistente; il marketing strategico, che all’interno del mercato di riferimento analizza le tendenze produttive e di acquisto, e permette di domandarsi in cosa si sia diversi dagli altri (e se la risposta non piace, costringe a capire come diventarlo); il marketing operativo, che costringe a domandarsi chi vorrà i libri che si pubblicano, prima ancora di domandarsi come far sì che le persone li vogliano. Situare la propria Casa editrice, le sue ambizioni e i suoi prodotti secondo questa classificazione rende più consapevoli della propria azione produttiva e commerciale.

Nove: Il marketing operativo impone di prendere in considerazione le Quattro P del marketing mix, ovvero Product, Pricing, Placement e Promotion. Per comprendere bene a chi si rivolge un libro non basta sapere di cosa parla e come lo racconta. Bisogna domandarsi che valori produttivi dare all’oggetto-libro, in che fascia di prezzo inserirlo, in che modo situarlo e contestualizzarlo nei canali di vendita e come attuare la promozione, sia a livello commerciale che mediatico. Lo sforzo creativo degli autori diventa efficace socialmente, e quindi economicamente, quando l’editore si pone il problema di connettere in maniera fluida e naturale il prodotto con il suo pubblico di riferimento.

Otto: Parlare di un libro con linguaggio specifico e mirato allerta il suo pubblico di riferimento, rendendolo consapevole dell’esistenza del libro stesso. In una società sempre più stimolata e distratta, oltre che una valida strategia commerciale, si tratta di un vero servizio al lettore. Il marketing non deve mentire sulle caratteristiche di un prodotto, ma spiegare a chi potenzialmente lo potrà amare che quel prodotto esiste, come è fatto e dove trovarlo.

Sette: Ragionando a ritroso dal punto precedente, capire chi sia il pubblico di riferimento di un libro aiuta a scegliere formato, materiali e punto di prezzo, cercando di tenere quest’ultimo al di sotto delle soglie psicologiche che dissuadono dall’acquisto. A volte non si può fare il prezzo ideale (Portugal di Cyril Pedrosa ha venduto molto più di Gli equinozi, il suo lavoro successivo. Questione di qualità delle opere? No. Portugal costa 27 euro, Gli equinozi 33. Ci sono molte pagine di differenza, ma il prezzo sopra i 30 euro ha dissuaso molti acquirenti, solo che era inevitabile, non poteva proprio costare meno) e questo limita il pubblico potenziale di un’opera.

Sei: Il marketing espone il prodotto. Lo sviscera, lo caratterizza, lo racconta. Se un libro è banale, il marketing non può renderlo interessante. Al massimo può parlarne evitando di sottolinearne la pochezza, ma quelle zone d’ombra, le cose non dette, si percepiscono. Perché il marketing lavora sull’emotività del destinatario del messaggio, e se non c’è emozione nel messaggio stesso si sente, il potenziale cliente lo capisce. Quindi il marketing, se applicato con onestà intellettuale, impone di innovare, di parlare solo di cose degne di essere comprate. E questo parametro non è soggettivo.

Cinque: “Bisogna fare solo i libri bellissimi.” Questa frase mi ossessiona da quando abbiamo fondato BAO. Eppure è vera, ed è spiegabile in modo quasi scientifico. I libri bellissimi sono quelli che, una volta finiti, lasciano il lettore con una fortissima voglia di regalarli a una persona cara o di consigliarli appassionatamente e spassionatamente a tutti. Il marketing più efficace è il passaparola, e non lo fa il produttore, ma il prodotto.

Quattro: Poiché il marketing espone la vera natura di un libro e di chi lo produce, ogni volta che le promesse della comunicazione si concretizzano e il lettore si scopre soddisfatto dell’acquisto, il rapporto di fiducia nei confronti di chi ha trasmesso quel messaggio si rafforza. Nella comunicazione commerciale, l’onestà paga, e si tramuta in fedeltà del cliente. Questo si chiama vantaggio cumulativo, ed è un meccanismo virtuoso che migliora il proprio rendimento con il tempo.

Tre: A lungo andare, i messaggi legati ai singoli prodotti diventano un discorso. E in filigrana chi ha ascoltato quel discorso non vede più i libri, ma chi li fa. Questo fa sì che la personalità creativa della Casa editrice diventi importante quanto l’identità degli autori a catalogo e dei libri che fa. Più è focalizzato il messaggio sulla mission della Casa editrice, più è facile che il lettore accolga serenamente e positivamente le sue proposte. Il marchio assume quindi un valore a sé, che prescinde dai prodotti. La sua autorevolezza consente all’azienda di innovare, proponendo prodotti che saranno considerati dal pubblico semplicemente per il fatto che “se quella Casa editrice ci crede, forse lo devo leggere”. Il medium diventa il messaggio, come teorizzava Marshall McLuhan, e il produttore diventa a sua volta parte del valore del prodotto.

Due: In editoria le copertine vengono fatte secondo la teoria dell’un-due-tre. Considerando una bozza di copertina ci si domanda sempre: quali sono i tre elementi che il lettore riconoscerà, che troverà motivanti per l’acquisto? A volte si tratta, nell’ordine, di autore, titolo e immagine di copertina. A volte autore, titolo e logo della Casa editrice. Quando la combinazione vincente è Immagine, titolo e logo, significa che l’autorevolezza del marchio supplisce alla poca fama del nome dell’autore. E questo avviene quando le precedenti pubblicazioni si sono rivelate di alta qualità, e la comunicazione è stata efficace: non basta fare libri belli. Bisogna promettere che saranno belli, spiegare in che modo lo sono, e poi lasciare che il lettore lo verifichi in modo autonomo. Così un logo aziendale diventa un marchio di garanzia.

Uno: Costringersi alla scelta del linguaggio giusto per veicolare i messaggi porta ad affinare la comunicazione e a renderla più efficace. Se questo articolo non avesse avuto il titolo che ha, e non fosse stato organizzato come una lista, molti non lo avrebbero letto. E il libro dell’immagine che ho scelto funziona allo stesso modo: se si fosse intitolato “Elmore Leonard ti insegna a scrivere” molti potenziali lettori si sarebbero semplicemente domandati: “Chi era già, questo Elmore Leonard?” Filistei, lo so, ma basta il titolo giusto ad avvicinare anche loro al pensiero di uno scrittore immenso.

Che è un po’ lo scopo di tutto quello che facciamo qui. Convincere la gente a fidarsi di noi, perché possano conoscere autori e libri che altrimenti avrebbero ignorato. È la parte che più amo del mio lavoro, e non è affatto “solo una tecnica di marketing”.

Guardar nascere un libro

Venerdì scorso ho caricato sulla macchina Gigi Cavenago, il copertinista di Dylan Dog, e Lorenzo Bolzoni, capo grafico BAO, e li ho portati a Mestrino, in provincia di Padova, allo stabilimento delle Industrie Grafiche Peruzzo, a vedere stampare l’edizione BAO di Mater Dolorosa, l’episodio del trentennale di Dylan Dog, scritto da Roberto Recchioni e che Gigi ha disegnato e dipinto in digitale.

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Il motivo del viaggio, e della nostra levataccia, era semplice: sapendo che il suo lavoro sarebbe stato originariamente stampato in rotativa su una carta molto porosa, Gigi aveva lavorato per un anno calcolando le masse, le luci, i colori e i contrasti cromatici in modo da cercare di anticipare i problemi di assorbimento dell’inchiostro in fase di stampa che potevano manifestarsi nell’edizione da edicola della storia. A onor del vero quell’albo è stato stampato molto bene, in parte per merito degli accorgimenti di Gigi e in parte perché la tipografia ha saputo compensare le problematiche che erano dietro l’angolo. Lavorare all’edizione da libreria per Gigi era come essere operato di cataratta nell’intervallo di un film e assistere al secondo tempo con la vista in perfette condizioni: rischiava di essere abbacinato dalla resa di stampa. Era necessario che istruisse lui i tecnici della Peruzzo sugli aggiustamenti di colori da effettuare.
Sono stato io a insistere per questo viaggio (me lo sono dovuto ricordare, davanti allo specchio, alle cinque del mattino), perché quando costruiamo un libro ho tre regole: fidati dei materiali che hai scelto, fidati delle persone che li maneggeranno, ma soprattutto fidati dei tuoi occhi. Quella con un tipografo, come ogni relazione che vale davvero la pena, è una storia fatta di costante comunicazione.
Quando siamo arrivati, c’era questo cartello di benvenuto:

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E intendo che era stato messo in ogni ufficio dell’azienda. 🙂
Avevo chiesto alla tipografia la cortesia di allestire su due macchine contemporaneamente la stampa di interni e copertine, perché volevo che Gigi potesse valutare più cose nelle ore a nostra disposizione. Loro si sono superati, dedicandoci tre macchine: la Heidelberg da 10 colori per gli interni, e altre due macchine per i risguardi e le copertine.
Per prima cosa Gigi si è fatto spiegare come funzionano le moderne macchine per la stampa offset, guidato dal competentissimo responsabile, Alessandro Levorin:

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E poi siamo andati ad analizzare i primi fogli macchina della segnatura numero 1, il primo fascicolo di sedici facciate del libro.

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Gigi ha spiegato ai tecnici cosa voleva correggere, e i calamai di stampa sono stati regolati opportunamente. La carta di questa edizione è la Fedrigoni Symbol Matt Plus, una delle più belle patinate opache che abbiamo mai usato, nella versione da 150 grammi al metro quadro.

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Ci sono voluti circa duecento fogli di prova per mandare a regime le correzioni, sotto lo sguardo attento del tecnico di macchina Alberto Cusinato.


A quel punto ho chiesto se fosse possibile stampare subito dopo la segnatura numero 1 la numero 3, perché è quella con le scene diurne a Moonlight, le più diverse – cromaticamente – dal tono generale della storia. Ci è stato detto che per terminare le diecimila copie della prima segnatura ci sarebbe voluta circa un’ora, così siamo andati a controllare la stampa dei risguardi.

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Poiché si trattava di stampa monocromatica, ci è voluto poco per essere rassicurati dal risultato, e siamo andati a guardar stampare le copertine.


La prima è stata la Variant, che ha richiesto qualche aggiustamento, ma è stata ben presto licenziata con piena soddisfazione da Gigi.

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Quando siamo passati alla regular è stato necessario per prima cosa cambiare le lastre di stampa.

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Il procedimento è semplice, ma richiede grande precisione, e Gigi e Lorenzo non hanno perso occasione per farselo raccontare nel dettaglio da Fabio Cusinato, geloso custode delle Heidelberg “storiche” della Peruzzo.

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Poi la stampa della seconda copertina è iniziata e c’è stato bisogno di domare i valori del giallo. Gigi era ormai perfettamente in sintonia con il procedimento produttivo e ha potuto dare istruzioni precise a Fabio.

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A regolazioni effettuate è stato ben lieto di firmare l’approvazione alla stampa sul primo foglio macchina definitivo.

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Il tempo di fare un paio di dediche nell’ufficio dei grafici…

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… ed è arrivato il momento di andare a controllare i primi fogli in uscita della segnatura 3, con i suoi azzurri intensi.

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Questo ha permesso ai tipografi di avere una guida cromatica alla quasi totalità delle casistiche del libro, il che ci ha dato la tranquillità necessaria per fare qualche ultima raccomandazione e poi ripartire, sapendo che il volume sarà rispondente alle aspettative dell’uomo che lo ha disegnato.

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La ragione per cui siamo dovuti partire all’alba per arrivare presto in tipografia era semplice: per stampare diecimila copie di questo libro di centosessanta pagine, servivano venti ore di lavoro su tre turni, tra venerdì e sabato. Ora il volume è in legatoria, e il 30 marzo sarà in tutte le fumetterie e librerie d’Italia. E noi sentiamo di aver fatto tutto ciò che potevamo per rendere la visione di Roberto e di Gigi nel modo più fedele, vivido, puro e rispettoso.
E nonostante la levataccia e le occhiaie, è stato un privilegio poter fare le cose per bene, e regalare a Gigi Cavenago l’emozione di veder nascere quelle pagine per la seconda volta, nella loro terza vita, dopo quella sullo schermo del suo computer e quella dell’edizione da edicola.

(Un grazie affettuoso e sincero a Lorenzo Menini e Gianluca Politi, che ci hanno fatto sentire più che a casa, che di “Casa editrice” è senz’altro la nostra parola preferita.)

Foreign Rights – Parte 2 – Selling Comics by the pound

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Quando scrivevo storie di Pikappa, una dozzina di anni fa, c’era una regola redazionale che mi tornava molto utile narrativamente: le sceneggiature erano sempre per quarantotto pagine, ma a pagina ventiquattro andava inserita una cesura narrativa, perché in alcuni paesi scandinavi quelle storie venivano pubblicate in due parti e ci voleva un cliffhanger minore per indicare la fine della prima parte. Era molto comodo, per chi scriveva, sapere di avere una sorta di baricentro narrativo; mi aiutava a capire se c’era equilibrio di azione nelle due metà delle mie storie. Certo, la ragione era meramente commerciale, perché se le storie non si fossero potute smontare in due capitoli certi mercati non le avrebbero acquistate, ma era una richiesta molto semplice da esaudire, per me.
Anni dopo, il desiderio di rendere ogni storia potenzialmente appetibile per il mercato globale ha portato all’istituzione di parametri narrativi oggettivamente più restrittivi in termini di lunghezza delle storie e temi che si potevano trattare, ma non è mai stato un mio problema: prima di diventare un creativo che si doveva preoccupare della burocrazia del Fumetto, ho abbandonato la scrittura per diventare un burocrate creativo. E infatti, eccomi qua.

Se una multinazionale dell’intrattenimento è costretta a fare fin troppa attenzione a non precludersi nessuno dei mercati sui quali si trova a operare, la maggior parte delle Case editrici di fumetti italiane si pone troppo poco il problema, e spesso quando decide di pubblicare materiale originale non si rende conto di realizzare storie troppo italocentriche, difficili se non impossibili da esportare.
Stando a dati AIE di un paio di anni fa, in Italia il 60% dei libri che si pubblicano sono importati, e il restante 40% è di autori italiani. Se si entra in una fumetteria è probabile che la percentuale sia ancora più sfavorevole. Produrre un fumetto costa più tempo, più denaro e richiede più competenze rispetto a un titolo importato dall’estero, e fino a qualche anno fa – con alcune notevoli eccezioni – era molto probabile che un titolo italiano vendesse meno di uno straniero.

Digressione: se trovi un autore disposto a pubblicare gratis, forse un titolo italiano costa meno di un titolo importato. Ma questo è un blog serio, e mi piace pensare che tutti i colleghi lo siano, quindi non prenderò nemmeno in considerazione questa possibilità.

Qui in BAO siamo strenui fautori della politica di scegliere che titoli pubblicare in base al gusto personale e, anzi, abbiamo fatto del nostro gusto di lettori una filosofia editoriale, ma ci poniamo sempre il problema di cercare di evitare i progetti impossibili da spiegare all’estero. Tematiche troppo legate al tessuto sociale italiano, o storie interamente basate su giochi di parole difficili da tradurre con efficacia sono i casi più evidenti di storie che ci lasciano perplessi quando ci vengono proposte. La motivazione è pratica: quando pubblichiamo un libro non abbiamo la certezza che andrà bene. Questo significa che non siamo certi che copriremo tutte le spese necessarie per realizzare il libro, o che l’autore vedrà royalties in aggiunta all’anticipo sui diritti che gli avremo dato. Pertanto, quando possibile, cerchiamo di finanziare progetti che potenzialmente possano essere venduti anche su altri mercati.

Le difficoltà non sono solamente legate al tema o allo stile, ovviamente: il mercato francese è saturo di uscite (oltre seimila novità l’anno) e quello americano è composto al 96,4% da titoli prodotti negli USA, mentre le importazioni ammontano solo al 3,6% residuo. È quindi molto difficile vendere un’opera su uno di questi mercati. Tuttavia, se un libro vale, e si riesce a portarlo nel modo giusto sotto al naso degli editori internazionali, non è impossibile.
In Italia solo il 15% delle Case editrici (in generale, non solo di fumetti) è dotato di un ufficio diritti internazionali. Questo vuol dire che, per le motivazioni più disparate, oltre otto editori su dieci rinunciano a cercare di vendere le opere che posseggono (o rappresentano per conto degli autori) ad altri mercati. Ma qual è lo sforzo necessario per accedere ai mercati esteri? Vediamolo nel dettaglio.

Per prima cosa è fondamentale fare autocritica: la cultura italiana è ammirata, ma non sempre di immediato interesse per il resto del mondo. Un graphic novel sulla romantica e piratesca figura del mozzarellista, per esempio, potrebbe anche avvincere un lettore straniero, ma la storia della Giostra del Saracino di Arezzo nei secoli, magari, meno. Parimenti, la nostra amata lingua è meno parlata (e letta) nel mondo di quanto si pensi. Quindi è necessario stanziare i fondi necessari a tradurre e letterare in inglese i titoli che si vogliono esportare. La mia ormai quasi ventennale esperienza mi induce a dire che i mercati di lingua inglese saranno comunque tra gli ultimi a interessarsi, ma la loro lingua è così diffusa da rendere inevitabile la scelta. È poi il caso di dotarsi di un sito dedicato, dove non solo siano presenti schede sintetiche dei titoli disponibili, ma anche un elenco aggiornato di editori stranieri che hanno già comprato i diritti di un certo titolo (o, più in generale, dei titoli di quella Casa editrice). Il motivo è semplice: se altri ci hanno creduto, è più facile decidere di fare altrettanto.
Diventa a questo punto essenziale avere in ufficio una risorsa umana dedicata alla costruzione di una mailing list di editori, scout e agenti, cui mandare periodiche newsletter che parlano di uno specifico titolo che si desidera vendere. Rendere disponibili i PDF in inglese (e in italiano, perché per esempio ci sono editori di lingua spagnola e portoghese che lo leggono più volentieri) e offrirsi di spedire copie stampate dei libri per la valutazione sono pratiche utili a rendere più interessanti i titoli da vendere.
Le fiere sono un altro aspetto fondamentale: Angoulême a gennaio, Bologna ad aprile e Francoforte a ottobre sono i tre momenti-cardine per la vendita e l’acquisizione delle licenze editoriali, ed è importante essere pronti e presenti. Noi per anni ci siamo andati esclusivamente per comprare, e abbiamo notato l’inversione di tendenza quando, dopo aver allestito correttamente il nostro dipartimento Foreign Rights, le richieste di appuntamenti per vedere il nostro catalogo hanno cominciato ad arrivarci spontaneamente.
Tanto l’invio di newsletter tecniche quanto i pitch dal vivo alle fiere sono utili, ma non si tramutano quasi mai in vendite. Chi segue questa parte del lavoro nella Casa editrice deve fare un costante, meticoloso lavoro di follow-up, scrivendo per esempio a tutti coloro che ha incontrato dopo una fiera, riassumendo ciò di cui si è parlato, ma anche semplicemente rispondendo sempre a tutte le domande che una newsletter può generare.
Un venditore tende ad arrendersi dopo cinque tentativi, dicono numerosi studi. Ma l’80% delle vendite avviene dopo il settimo tentativo. Se vi arrendete, il vostro interlocutore penserà che in fondo non vi importasse molto di vendere la licenza per quel certo libro. Se perseverate, invece, sarà evidente che ci tenete, che conoscete bene tanto il vostro libro quanto il catalogo dell’editore cui state facendo la corte, e quindi sarà più probabile che – a prescindere che la risposta sia “lo compro” o “no grazie” – riceviate una reazione onesta, costruttiva e consapevole.

Digressione: Badate, non vi sto consigliando di assillare nessun editore. Si tratta di riprendere in modo cortese e non ossessivo il discorso a ogni occasione utile: se a gennaio avete presentato un titolo, prima di rivedervi ad aprile mandate un reminder, e se dopo aprile non c’è stata espressione di interesse all’acquisto mandate una copia fisica al vostro interlocutore con un biglietto che dice “Secondo me è perfetto per il tuo catalogo”. Cercate di non diventare mai, agli occhi di nessuno, un rompiballe. A nessuno piace un rompiballe. Io reagirei malissimo.

Se avete letto fin qui, vi starà venendo il sospetto che vendere i diritti stranieri di un fumetto non sia affatto facile, e avete ragione. Però c’è una motivazione molto forte per cui cercare di farlo: una Casa editrice che offre quella prospettiva a un suo autore è molto più appetibile di una che neanche ci prova. E il principale capitale di cui dispone un editore sono gli autori nel suo catalogo. E non quelli che sono passati di lì per il tempo di un libro, ma quelli che sono felici di farne parte e, al netto di altre collaborazioni, non hanno nessuna intenzione di andarsene. Quelle persone, che devolvono migliaia di ore alla realizzazione di un solo libro, meritano eccellenza. La scelta della carta è cura, la corretta comunicazione al pubblico è cura, un buon feeling con la stampa è cura. Saper entusiasmare non solo i singoli lettori, ma perfino altri editori è cura. Dimostrare di aver interiorizzato così bene il messaggio di un libro da saperlo tradurre a beneficio dei colleghi stranieri è tra le forme più alte di cura per un progetto editoriale.

E poi tutto quello che serve è un successo. Uno dei grandi paradossi del catalogo BAO è stato, per anni, il fatto che il nostro più grande successo, Zerocalcare, era considerato intraducibile dagli editori stranieri. A onor del vero dopo La profezia dell’armadillo il lavoro di Michele si è fatto via via sempre meno legato alla cultura popolare italiana, assumendo un respiro realmente classico e universale, ma ci è voluto Kobane Calling, perché il mondo editoriale si rendesse conto del potenziale. Nel 2016 quel libro è stato venduto in Francia, Spagna, Germania, Norvegia e Stati Uniti. La sola edizione straniera uscita finora è quella Francese, che in meno di tre mesi ha superato le ventimila copie vendute. Da quel momento, e non solo in Francia, gli editori si contendono gli altri titoli del suo catalogo. Questo ha aumentato l’attenzione verso il resto della nostra rights list e ora la nostra addetta ai Foreign Rights ha un bel daffare a rispondere alle mail degli editori che ci scrivono. L’ambizione, dopo aver venduto una dozzina di licenze nel 2016, è di dover assumere qualcuno che si occupi di questo dipartimento a tempo pieno entro il 2019.

Ho cominciato questo articolo raccontando di come il bisogno di globalizzare la narrazione rischi di danneggiare la creatività. Mentre scrivevo ho continuato a domandarmi se abbiamo mai consapevolmente chiesto a un nostro autore di fare o non fare qualcosa, narrativamente, per non alienare il possibile pubblico straniero. Poi però mi sono detto che proprio in questi giorni un editore americano ha pubblicato Il suono del mondo a memoria, quindi una storia sul suo stesso Paese, e che i libri perfetti sono quelli che si traducono senza difficoltà di adattamento culturale (il mio esempio preferito è Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino. In qualunque lingua io lo abbia letto, l’ho sempre trovato intatto nelle intenzioni). La bussola da seguire è sempre quella dell’entusiasmo bruciante degli autori per le loro opere: ce ne dev’essere tanto da consentire loro di finire il libro senza disamorarsene, e un po’ d’avanzo per infettare i lettori italiani, e ancora un poco perché anche all’estero ci si renda conto di quanto è speciale quel libro. Forse a causa del fatto che il successo della Casa editrice per cui lavoro è dovuto in larga parte al passaparola positivo, non posso non concludere che il passaparola è la sola cosa che dobbiamo realmente ambire a globalizzare.

Tradurre le emozioni – A beginner’s guide

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Tradurre un’opera letteraria è una tra le più nobili e donchisciottesche delle imprese necessarie a far succedere un libro fuori dai confini del Paese dove è nato. Molto è stato detto e scritto sulla filosofia della traduzione, ma sulle specificità di questo fondamentale lavoro nell’ambito del Fumetto non si dice mai abbastanza, secondo me.

Nel 2001 ho comprato un fumetto pubblicato da una casa editrice che meno di due anni dopo sarebbe fallita, la Lexy, tradotto da una serie americana di un editore che meno di due anni dopo sarebbe fallito, la Crossgen, e sono inorridito. La traduzione era così pedestre che alcune espressioni in inglese che il traduttore non aveva capito erano state scambiate per nomi e cognomi e lasciate tali e quali all’originale. Scrissi una lettera per lamentarmi, la mandai per fax alla Casa editrice

[Pausa: sì. Un fax. Sì. Sono così vecchio.]

dicendo che avrei voluto riavere i soldi dell’albo, perché ero molto deluso. La risposta che ricevetti diceva, essenzialmente, che c’erano modi migliori di proporsi a un’azienda, ma che sarebbero stati contenti di ricevere un mio preventivo per le mie prestazioni di traduttore.
Così, alla tenera età di venticinque anni, imparai una lezione preziosissima: a volte passi prove cui non sapevi di starti sottoponendo. E ti senti molto figo. Altre volte fallisci prove cui non sapevi di starti sottoponendo. E incolpi la sfiga. Invece la sfiga non esiste: devi sapere che potresti essere messo alla prova in ogni momento, qualunque cosa stiate facendo, dicendo… o traducendo.
Sì, perché se questa regola è preziosissima quando sei il più giovane colonnello dell’esercito britannico e ti stringono d’assedio tra il Sudafrica e il Botswana nel 1899, lo è ancora di più se traducete da una lingua straniera verso la vostra, perché i lettori possono, a volte, captare i vostri processi mentali e, in questi casi, sarà meglio che li sappiate difendere.

Tradurre per il Fumetto è un’attività tra le più improvvisate e meno disciplinate tra quelle che contribuiscono al nostro comparto editoriale, ma come tutte le attività di traduzione è fortemente meritocratica: chi ci sa fare davvero si vede, si sente. Il problema di chi si improvvisa traduttore è che si tende a pensare di poter compensare ciò che non si sa comprendere perfettamente nella lingua di partenza con un uso perfetto dell’italiano. E nella mia esperienza di editor ho trovato più persone che sopravvalutano il loro italiano di quante ce ne siano che sopravvalutano le loro conoscenze di lingue straniere. Tradurre fumetti è un lavoro ingrato, con un innegabile vantaggio e una rogna colossale che è impossibile aggirare.
Il vantaggio è che, come nella lettura dei fumetti, è possibile fermarsi con frequenza e riprendere a tradurre senza dover “rodare” la voce stilistica, a differenza delle traduzioni di narrativa in prosa, che è preferibile affrontare per periodi piuttosto lunghi, senza interruzioni. La rogna è che i balloon sono di una certa dimensione, e sono stati costruiti intorno alle battute in lingua originale, che nella maggior parte dei casi esprime i concetti con maggiore sintesi rispetto all’italiano. In prosa, una traduzione dall’inglese all’italiano può arrivare ad essere lunga 1,3 volte il testo originale. Nel fumetto è impossibile consentire lo stesso rapporto, le battute devono essere più o meno della stessa lunghezza in entrambe le lingue.

Digressione legata a quanto ho appena scritto: quando chiedo agli aspiranti autori di scrivere un soggetto che ci stia rigorosamente in una pagina, a volte ricevo testi scritti a corpo 5, con margini minuscoli, come se un amanuense con la sindrome di Asperger avesse cercato di copiare l’intero manuale di istruzioni di un videoregistratore (sì, sono davvero così vecchio) su un chicco di riso. Ecco, nel Fumetto è da evitare. Una volta stabilita la dimensione, la spaziatura del lettering, quei parametri vanno diminuiti solo se qualcuno in una certa vignetta sta bisbigliando, o viceversa aumentati se qualcuno grida, ma in ogni altro caso non sta al lettering compensare il fatto che la traduzione non è sufficientemente sintetica.

Con l’esperienza diventa meno difficile. Ma a quel punto c’è un altro ostacolo da superare: nelle traduzioni di fumetti ci sono due o tre diversi registri linguistici, che devono coabitare in modo armonioso. I dialoghi nei balloon, che sono l’equivalente fumettistico del discorso diretto, possono avere un tono colloquiale, addirittura simulare accenti, difetti di pronuncia, perché devono somigliare a un plausibile “parlato” tra i personaggi della storia. Le didascalie hanno, nel caso di narratore onnisciente, un registro leggermente più alto, meno informale, a meno che non siano monologo interiore o annotazioni diaristiche, che hanno specificità peculiari. Se poi c’è del testo a scorrere, cioè in prosa, il registro è ancora più alto e linguisticamente corretto. Badate: sto parlando di effettiva proprietà di linguaggio, non di seriosità. Per esempio: “Ehi, hai un po’ di zucchero da prestarmi?” va bene per un balloon, ma in una didascalia con la voce del narratore è preferibile scrivere “Quando si risvegliò stava un poco meglio”, evitando l’elisione.

Una volta mi sono trovato a lavorare con un noto adattatore di film d’animazione giapponesi. Dovevo trascrivere alcuni suoi dialoghi per un libro dedicato al lungometraggio che lui aveva adattato per il doppiaggio. Gli chiesi il permesso di rendere più grammaticalmente corrette certe sue frasi perché – era la verità, non una scusa diplomatica – una frase dalla struttura discutibile si perdona se la senti al cinema e non contiene palesi errori, ma se la si legge stampata su una pagina salta decisamente all’occhio. Lui mi accordò il permesso, ma ci tenne a spiegarmi che il suo primo dovere era il rispetto per la lingua giapponese.
Sono passati dieci anni, ma sono ancora convinto che si sbagliasse. La responsabilità del traduttore è verso i futuri fruitori della sua traduzione. È fondamentale non tradire le intenzioni del testo originale, ma è altrettanto importante non costringere mai chi legge o ascolta una traduzione a domandarsi “Cosa diavolo voleva dire?” Parafraserò una frase del famoso letterista Todd Klein, che lo diceva del suo mestiere: un traduttore è come le posate al ristorante. Le noti solo se sono sporche. Idealmente, un traduttore che fa davvero bene il suo lavoro dovrebbe far pensare al lettore che lo scrittore dei testi è davvero bravo, senza che ci si ponga il problema di chi ha mediato le sue parole spostandole dalla cultura che le ha generate a quella di una lingua completamente diversa. Tuttavia, siccome quello delle traduzioni è un mondo molto meritocratico – che è un modo gentile per dire che quelli bravi spiccano perché c’è un sacco di lavoro anche per quelli meno bravi – e i lettori sono stati spesso esposti, loro malgrado, a traduzioni farraginose, o troppo letterali, o che non indagavano abbastanza a fondo sulle intenzioni dello scrittore, si finisce per notare anche la bravura dei traduttori più validi. Il che è giusto e sacrosanto ma, ripeto, in un mondo ideale non succederebbe.

Tra le trappole più comuni c’è quella di voler tendere ad adattare troppo. Per la cultura francese, che ha praticamente bandito l’esterofilia, è normale far seguire qualunque parola straniera da un asterisco che ne spiega il significato in francese in calce alla vignetta. Certo, se un fumetto americano fa riferimento a un episodio del Late Night Show non potete tradurre facendo diventare quel programma il Maurizio Costanzo Show (ve l’avevo detto: vecchio come il cucco). Se il contesto consente di capire il riferimento senza bisogno di note o stravolgimenti, tanto meglio.

Digressione: la nostra cultura ci permette di fare lo stesso con gli effetti sonori. Una rana americana fa ribit! Ribit! e non c’è bisogno, per questo di farle fare cra! Cra! Se fossimo olandesi, però, un roditore che mastica del legno facendo scrunch! verrebbe “doppiato” e il suono diventerebbe scrontsij!

Anche per quanto riguarda il ricorso alle note, vige la regola del buonsenso: se un gioco di parole risulta realmente intraducibile, può rendersi necessario fare una nota a pie’ di vignetta o di pagina, perché se il lettore non comprende il calembour non può procedere serenamente nella lettura. Se una nota si rende necessaria per contestualizzare un aspetto culturale che il lettore italiano potrebbe ignorare, invece, è preferibile contemplare una sezione di note in appendice all’opera, per non appesantire le tavole, alterandone l’equilibrio visuale creato dal disegnatore.

Un aspetto specifico delle traduzioni a fumetti è l’uso dei neretti, proprio in maniera particolare dei fumetti americani. Molto spesso si vedono traduzioni in cui sono state rese in neretto le stesse parole che lo erano nella versione inglese, e in certi casi è un errore. Il neretto nei dialoghi di un fumetto è un’enfasi su una specifica parola che a volte si può comprendere solo leggendo la battuta ad alta voce. Spostare quell’enfasi in un altro punto di una frase la può far cambiare impercettibilmente, e l’accumularsi di piccole variazioni di intento, neretto dopo neretto, può realmente cambiare il tono di un dialogo, tradendolo.
In certi casi poi è semplicemente sbagliato.
Immaginiamo che un personaggio ringhi all’interlocutore, stizzito: Don’t tell me what to do!
La tentazione di tradurre con Non dirmi cosa devo fare! è forte, lo so. Però non ha alcun senso. In inglese “don’t” è un verbo, quindi l’enfasi è data all’imperativo. Se non si vuole nerettare troppo testo, è molto meglio dire: Non dirmi cosa devo fare! per far capire che chi parla si sta ribellando a quella che vive come una ingiusta imposizione. L’unico caso in cui in italiano avrebbe senso mettere in neretto la particella negativa sarebbe nel caso in cui la battuta precedente fosse: Sai quale sarebbe la sola cosa più grave di dirmi cosa devo fare? Non dirmi cosa devo fare! perché in questo caso evidenziare la negazione crea il contrasto paradossale con il periodo precedente.

In generale, nerettare le stesse parole del testo originale costituisce nel Fumetto una forma di calco, che è l’anatema assoluto del traduttore. Rendere pedissequamente la stessa forma strutturale di un’espressione da un’altra lingua vi rende vulnerabili: un lettore che abbia una anche modesta conoscenza della lingua di partenza si accorgerà di un calco, di una traduzione letterale ed errata, in qualche punto del testo, e da quel momento non si fiderà più della vostra traduzione. Ecco perché essere troppo letterali è un peccato veniale, e non accorgersi dei calchi è un peccato mortale, per un traduttore. La struttura di ogni frase va ripensata per la propria lingua, perché sia la scelta più naturale e appropriata.
Quando traducevo i romanzi di Tom Clancy, mi ero reso conto che c’erano alcuni verbi usati e abusati dagli autori americani per far prendere tempo ai loro personaggi. Uno era to lean back in the chair, ovvero appoggiarsi allo schienale della sedia. Durante i lunghi dialoghi pareva che i personaggi non facessero altro. Un altro era to shrug, ovvero scrollare le spalle. Veniva scritto così spesso che avevo preso ad alternare tre traduzioni per creare impercettibili varazioni emotive: alzare le spalle (ammissione di ignoranza), scrollare le spalle (disinteresse pilatesco per una faccenda) e fare spallucce (quando il personaggio voleva minimizzare). Questo perché nella lingua inglese le ripetizioni sono più tollerate e in certi casi sono considerate un tratto stilistico. In italiano sono invece segno di sciatteria e del fatto che il testo è stato riletto troppo poco.
Quando una ripetizione non è necessaria per uno stratagemma narrativo, se non viene eliminata usando opportuni sinonimi, è un calco concettuale e abbassa il livello qualitativo della traduzione.

Se state pensando di candidarvi per tradurre fumetti, scrivete all’editore dicendovi pronti a una prova di traduzione, e per prima cosa richiedete il loro normario. Il normario è un insieme di regole ortografiche e di formattazione che è bene tenere presente quando si lavora per una specifica redazione. Ogni Casa editrice ne ha uno diverso. Con il tempo imparerete a leggere una sola facciata di un libro e a capire che, per esempio:

«Ormai è tempo di andare» disse Jack, consultando l’orologio. «Non voglio aspettare che sia notte.»
è Rizzoli, mentre

«Ormai è tempo di andare», disse Jack, consultando l’orologio. «Non voglio aspettare che sia notte».
è Marcos y Marcos.

E non fatemi cominciare su quando il punto vada dentro le virgolette e quando fuori qui in BAO, perché c’è mezza pagina del normario solo su questo argomento. 🙂

Il tema delle traduzioni mi appassiona, e per noi qui scoprire una bella voce traduttiva è emozionante come scoprire un nuovo bravo autore. Ne riparleremo.
La settimana prossima, però, riprenderemo il discorso dei Foreign Rights. Dopo aver parlato di come si comprano, tratteremo l’aspetto inverso: la vendita.