Si trasloca!

Cari lettori di questo blog–
solo due righe al volo per dirvi che da oggi BAO Publishing ha un nuovo sito, e che il blog sarà integrato in esso. I vecchi articoli resteranno qui, ma da oggi troverete i nuovi qui: https://baopublishing.it/blog/
Vi aspetto, con aggiornamenti frequenti e, spero, interessanti.

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Foreign Rights – Parte 2 – Selling Comics by the pound

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Quando scrivevo storie di Pikappa, una dozzina di anni fa, c’era una regola redazionale che mi tornava molto utile narrativamente: le sceneggiature erano sempre per quarantotto pagine, ma a pagina ventiquattro andava inserita una cesura narrativa, perché in alcuni paesi scandinavi quelle storie venivano pubblicate in due parti e ci voleva un cliffhanger minore per indicare la fine della prima parte. Era molto comodo, per chi scriveva, sapere di avere una sorta di baricentro narrativo; mi aiutava a capire se c’era equilibrio di azione nelle due metà delle mie storie. Certo, la ragione era meramente commerciale, perché se le storie non si fossero potute smontare in due capitoli certi mercati non le avrebbero acquistate, ma era una richiesta molto semplice da esaudire, per me.
Anni dopo, il desiderio di rendere ogni storia potenzialmente appetibile per il mercato globale ha portato all’istituzione di parametri narrativi oggettivamente più restrittivi in termini di lunghezza delle storie e temi che si potevano trattare, ma non è mai stato un mio problema: prima di diventare un creativo che si doveva preoccupare della burocrazia del Fumetto, ho abbandonato la scrittura per diventare un burocrate creativo. E infatti, eccomi qua.

Se una multinazionale dell’intrattenimento è costretta a fare fin troppa attenzione a non precludersi nessuno dei mercati sui quali si trova a operare, la maggior parte delle Case editrici di fumetti italiane si pone troppo poco il problema, e spesso quando decide di pubblicare materiale originale non si rende conto di realizzare storie troppo italocentriche, difficili se non impossibili da esportare.
Stando a dati AIE di un paio di anni fa, in Italia il 60% dei libri che si pubblicano sono importati, e il restante 40% è di autori italiani. Se si entra in una fumetteria è probabile che la percentuale sia ancora più sfavorevole. Produrre un fumetto costa più tempo, più denaro e richiede più competenze rispetto a un titolo importato dall’estero, e fino a qualche anno fa – con alcune notevoli eccezioni – era molto probabile che un titolo italiano vendesse meno di uno straniero.

Digressione: se trovi un autore disposto a pubblicare gratis, forse un titolo italiano costa meno di un titolo importato. Ma questo è un blog serio, e mi piace pensare che tutti i colleghi lo siano, quindi non prenderò nemmeno in considerazione questa possibilità.

Qui in BAO siamo strenui fautori della politica di scegliere che titoli pubblicare in base al gusto personale e, anzi, abbiamo fatto del nostro gusto di lettori una filosofia editoriale, ma ci poniamo sempre il problema di cercare di evitare i progetti impossibili da spiegare all’estero. Tematiche troppo legate al tessuto sociale italiano, o storie interamente basate su giochi di parole difficili da tradurre con efficacia sono i casi più evidenti di storie che ci lasciano perplessi quando ci vengono proposte. La motivazione è pratica: quando pubblichiamo un libro non abbiamo la certezza che andrà bene. Questo significa che non siamo certi che copriremo tutte le spese necessarie per realizzare il libro, o che l’autore vedrà royalties in aggiunta all’anticipo sui diritti che gli avremo dato. Pertanto, quando possibile, cerchiamo di finanziare progetti che potenzialmente possano essere venduti anche su altri mercati.

Le difficoltà non sono solamente legate al tema o allo stile, ovviamente: il mercato francese è saturo di uscite (oltre seimila novità l’anno) e quello americano è composto al 96,4% da titoli prodotti negli USA, mentre le importazioni ammontano solo al 3,6% residuo. È quindi molto difficile vendere un’opera su uno di questi mercati. Tuttavia, se un libro vale, e si riesce a portarlo nel modo giusto sotto al naso degli editori internazionali, non è impossibile.
In Italia solo il 15% delle Case editrici (in generale, non solo di fumetti) è dotato di un ufficio diritti internazionali. Questo vuol dire che, per le motivazioni più disparate, oltre otto editori su dieci rinunciano a cercare di vendere le opere che posseggono (o rappresentano per conto degli autori) ad altri mercati. Ma qual è lo sforzo necessario per accedere ai mercati esteri? Vediamolo nel dettaglio.

Per prima cosa è fondamentale fare autocritica: la cultura italiana è ammirata, ma non sempre di immediato interesse per il resto del mondo. Un graphic novel sulla romantica e piratesca figura del mozzarellista, per esempio, potrebbe anche avvincere un lettore straniero, ma la storia della Giostra del Saracino di Arezzo nei secoli, magari, meno. Parimenti, la nostra amata lingua è meno parlata (e letta) nel mondo di quanto si pensi. Quindi è necessario stanziare i fondi necessari a tradurre e letterare in inglese i titoli che si vogliono esportare. La mia ormai quasi ventennale esperienza mi induce a dire che i mercati di lingua inglese saranno comunque tra gli ultimi a interessarsi, ma la loro lingua è così diffusa da rendere inevitabile la scelta. È poi il caso di dotarsi di un sito dedicato, dove non solo siano presenti schede sintetiche dei titoli disponibili, ma anche un elenco aggiornato di editori stranieri che hanno già comprato i diritti di un certo titolo (o, più in generale, dei titoli di quella Casa editrice). Il motivo è semplice: se altri ci hanno creduto, è più facile decidere di fare altrettanto.
Diventa a questo punto essenziale avere in ufficio una risorsa umana dedicata alla costruzione di una mailing list di editori, scout e agenti, cui mandare periodiche newsletter che parlano di uno specifico titolo che si desidera vendere. Rendere disponibili i PDF in inglese (e in italiano, perché per esempio ci sono editori di lingua spagnola e portoghese che lo leggono più volentieri) e offrirsi di spedire copie stampate dei libri per la valutazione sono pratiche utili a rendere più interessanti i titoli da vendere.
Le fiere sono un altro aspetto fondamentale: Angoulême a gennaio, Bologna ad aprile e Francoforte a ottobre sono i tre momenti-cardine per la vendita e l’acquisizione delle licenze editoriali, ed è importante essere pronti e presenti. Noi per anni ci siamo andati esclusivamente per comprare, e abbiamo notato l’inversione di tendenza quando, dopo aver allestito correttamente il nostro dipartimento Foreign Rights, le richieste di appuntamenti per vedere il nostro catalogo hanno cominciato ad arrivarci spontaneamente.
Tanto l’invio di newsletter tecniche quanto i pitch dal vivo alle fiere sono utili, ma non si tramutano quasi mai in vendite. Chi segue questa parte del lavoro nella Casa editrice deve fare un costante, meticoloso lavoro di follow-up, scrivendo per esempio a tutti coloro che ha incontrato dopo una fiera, riassumendo ciò di cui si è parlato, ma anche semplicemente rispondendo sempre a tutte le domande che una newsletter può generare.
Un venditore tende ad arrendersi dopo cinque tentativi, dicono numerosi studi. Ma l’80% delle vendite avviene dopo il settimo tentativo. Se vi arrendete, il vostro interlocutore penserà che in fondo non vi importasse molto di vendere la licenza per quel certo libro. Se perseverate, invece, sarà evidente che ci tenete, che conoscete bene tanto il vostro libro quanto il catalogo dell’editore cui state facendo la corte, e quindi sarà più probabile che – a prescindere che la risposta sia “lo compro” o “no grazie” – riceviate una reazione onesta, costruttiva e consapevole.

Digressione: Badate, non vi sto consigliando di assillare nessun editore. Si tratta di riprendere in modo cortese e non ossessivo il discorso a ogni occasione utile: se a gennaio avete presentato un titolo, prima di rivedervi ad aprile mandate un reminder, e se dopo aprile non c’è stata espressione di interesse all’acquisto mandate una copia fisica al vostro interlocutore con un biglietto che dice “Secondo me è perfetto per il tuo catalogo”. Cercate di non diventare mai, agli occhi di nessuno, un rompiballe. A nessuno piace un rompiballe. Io reagirei malissimo.

Se avete letto fin qui, vi starà venendo il sospetto che vendere i diritti stranieri di un fumetto non sia affatto facile, e avete ragione. Però c’è una motivazione molto forte per cui cercare di farlo: una Casa editrice che offre quella prospettiva a un suo autore è molto più appetibile di una che neanche ci prova. E il principale capitale di cui dispone un editore sono gli autori nel suo catalogo. E non quelli che sono passati di lì per il tempo di un libro, ma quelli che sono felici di farne parte e, al netto di altre collaborazioni, non hanno nessuna intenzione di andarsene. Quelle persone, che devolvono migliaia di ore alla realizzazione di un solo libro, meritano eccellenza. La scelta della carta è cura, la corretta comunicazione al pubblico è cura, un buon feeling con la stampa è cura. Saper entusiasmare non solo i singoli lettori, ma perfino altri editori è cura. Dimostrare di aver interiorizzato così bene il messaggio di un libro da saperlo tradurre a beneficio dei colleghi stranieri è tra le forme più alte di cura per un progetto editoriale.

E poi tutto quello che serve è un successo. Uno dei grandi paradossi del catalogo BAO è stato, per anni, il fatto che il nostro più grande successo, Zerocalcare, era considerato intraducibile dagli editori stranieri. A onor del vero dopo La profezia dell’armadillo il lavoro di Michele si è fatto via via sempre meno legato alla cultura popolare italiana, assumendo un respiro realmente classico e universale, ma ci è voluto Kobane Calling, perché il mondo editoriale si rendesse conto del potenziale. Nel 2016 quel libro è stato venduto in Francia, Spagna, Germania, Norvegia e Stati Uniti. La sola edizione straniera uscita finora è quella Francese, che in meno di tre mesi ha superato le ventimila copie vendute. Da quel momento, e non solo in Francia, gli editori si contendono gli altri titoli del suo catalogo. Questo ha aumentato l’attenzione verso il resto della nostra rights list e ora la nostra addetta ai Foreign Rights ha un bel daffare a rispondere alle mail degli editori che ci scrivono. L’ambizione, dopo aver venduto una dozzina di licenze nel 2016, è di dover assumere qualcuno che si occupi di questo dipartimento a tempo pieno entro il 2019.

Ho cominciato questo articolo raccontando di come il bisogno di globalizzare la narrazione rischi di danneggiare la creatività. Mentre scrivevo ho continuato a domandarmi se abbiamo mai consapevolmente chiesto a un nostro autore di fare o non fare qualcosa, narrativamente, per non alienare il possibile pubblico straniero. Poi però mi sono detto che proprio in questi giorni un editore americano ha pubblicato Il suono del mondo a memoria, quindi una storia sul suo stesso Paese, e che i libri perfetti sono quelli che si traducono senza difficoltà di adattamento culturale (il mio esempio preferito è Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino. In qualunque lingua io lo abbia letto, l’ho sempre trovato intatto nelle intenzioni). La bussola da seguire è sempre quella dell’entusiasmo bruciante degli autori per le loro opere: ce ne dev’essere tanto da consentire loro di finire il libro senza disamorarsene, e un po’ d’avanzo per infettare i lettori italiani, e ancora un poco perché anche all’estero ci si renda conto di quanto è speciale quel libro. Forse a causa del fatto che il successo della Casa editrice per cui lavoro è dovuto in larga parte al passaparola positivo, non posso non concludere che il passaparola è la sola cosa che dobbiamo realmente ambire a globalizzare.

Tradurre le emozioni – A beginner’s guide

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Tradurre un’opera letteraria è una tra le più nobili e donchisciottesche delle imprese necessarie a far succedere un libro fuori dai confini del Paese dove è nato. Molto è stato detto e scritto sulla filosofia della traduzione, ma sulle specificità di questo fondamentale lavoro nell’ambito del Fumetto non si dice mai abbastanza, secondo me.

Nel 2001 ho comprato un fumetto pubblicato da una casa editrice che meno di due anni dopo sarebbe fallita, la Lexy, tradotto da una serie americana di un editore che meno di due anni dopo sarebbe fallito, la Crossgen, e sono inorridito. La traduzione era così pedestre che alcune espressioni in inglese che il traduttore non aveva capito erano state scambiate per nomi e cognomi e lasciate tali e quali all’originale. Scrissi una lettera per lamentarmi, la mandai per fax alla Casa editrice

[Pausa: sì. Un fax. Sì. Sono così vecchio.]

dicendo che avrei voluto riavere i soldi dell’albo, perché ero molto deluso. La risposta che ricevetti diceva, essenzialmente, che c’erano modi migliori di proporsi a un’azienda, ma che sarebbero stati contenti di ricevere un mio preventivo per le mie prestazioni di traduttore.
Così, alla tenera età di venticinque anni, imparai una lezione preziosissima: a volte passi prove cui non sapevi di starti sottoponendo. E ti senti molto figo. Altre volte fallisci prove cui non sapevi di starti sottoponendo. E incolpi la sfiga. Invece la sfiga non esiste: devi sapere che potresti essere messo alla prova in ogni momento, qualunque cosa stiate facendo, dicendo… o traducendo.
Sì, perché se questa regola è preziosissima quando sei il più giovane colonnello dell’esercito britannico e ti stringono d’assedio tra il Sudafrica e il Botswana nel 1899, lo è ancora di più se traducete da una lingua straniera verso la vostra, perché i lettori possono, a volte, captare i vostri processi mentali e, in questi casi, sarà meglio che li sappiate difendere.

Tradurre per il Fumetto è un’attività tra le più improvvisate e meno disciplinate tra quelle che contribuiscono al nostro comparto editoriale, ma come tutte le attività di traduzione è fortemente meritocratica: chi ci sa fare davvero si vede, si sente. Il problema di chi si improvvisa traduttore è che si tende a pensare di poter compensare ciò che non si sa comprendere perfettamente nella lingua di partenza con un uso perfetto dell’italiano. E nella mia esperienza di editor ho trovato più persone che sopravvalutano il loro italiano di quante ce ne siano che sopravvalutano le loro conoscenze di lingue straniere. Tradurre fumetti è un lavoro ingrato, con un innegabile vantaggio e una rogna colossale che è impossibile aggirare.
Il vantaggio è che, come nella lettura dei fumetti, è possibile fermarsi con frequenza e riprendere a tradurre senza dover “rodare” la voce stilistica, a differenza delle traduzioni di narrativa in prosa, che è preferibile affrontare per periodi piuttosto lunghi, senza interruzioni. La rogna è che i balloon sono di una certa dimensione, e sono stati costruiti intorno alle battute in lingua originale, che nella maggior parte dei casi esprime i concetti con maggiore sintesi rispetto all’italiano. In prosa, una traduzione dall’inglese all’italiano può arrivare ad essere lunga 1,3 volte il testo originale. Nel fumetto è impossibile consentire lo stesso rapporto, le battute devono essere più o meno della stessa lunghezza in entrambe le lingue.

Digressione legata a quanto ho appena scritto: quando chiedo agli aspiranti autori di scrivere un soggetto che ci stia rigorosamente in una pagina, a volte ricevo testi scritti a corpo 5, con margini minuscoli, come se un amanuense con la sindrome di Asperger avesse cercato di copiare l’intero manuale di istruzioni di un videoregistratore (sì, sono davvero così vecchio) su un chicco di riso. Ecco, nel Fumetto è da evitare. Una volta stabilita la dimensione, la spaziatura del lettering, quei parametri vanno diminuiti solo se qualcuno in una certa vignetta sta bisbigliando, o viceversa aumentati se qualcuno grida, ma in ogni altro caso non sta al lettering compensare il fatto che la traduzione non è sufficientemente sintetica.

Con l’esperienza diventa meno difficile. Ma a quel punto c’è un altro ostacolo da superare: nelle traduzioni di fumetti ci sono due o tre diversi registri linguistici, che devono coabitare in modo armonioso. I dialoghi nei balloon, che sono l’equivalente fumettistico del discorso diretto, possono avere un tono colloquiale, addirittura simulare accenti, difetti di pronuncia, perché devono somigliare a un plausibile “parlato” tra i personaggi della storia. Le didascalie hanno, nel caso di narratore onnisciente, un registro leggermente più alto, meno informale, a meno che non siano monologo interiore o annotazioni diaristiche, che hanno specificità peculiari. Se poi c’è del testo a scorrere, cioè in prosa, il registro è ancora più alto e linguisticamente corretto. Badate: sto parlando di effettiva proprietà di linguaggio, non di seriosità. Per esempio: “Ehi, hai un po’ di zucchero da prestarmi?” va bene per un balloon, ma in una didascalia con la voce del narratore è preferibile scrivere “Quando si risvegliò stava un poco meglio”, evitando l’elisione.

Una volta mi sono trovato a lavorare con un noto adattatore di film d’animazione giapponesi. Dovevo trascrivere alcuni suoi dialoghi per un libro dedicato al lungometraggio che lui aveva adattato per il doppiaggio. Gli chiesi il permesso di rendere più grammaticalmente corrette certe sue frasi perché – era la verità, non una scusa diplomatica – una frase dalla struttura discutibile si perdona se la senti al cinema e non contiene palesi errori, ma se la si legge stampata su una pagina salta decisamente all’occhio. Lui mi accordò il permesso, ma ci tenne a spiegarmi che il suo primo dovere era il rispetto per la lingua giapponese.
Sono passati dieci anni, ma sono ancora convinto che si sbagliasse. La responsabilità del traduttore è verso i futuri fruitori della sua traduzione. È fondamentale non tradire le intenzioni del testo originale, ma è altrettanto importante non costringere mai chi legge o ascolta una traduzione a domandarsi “Cosa diavolo voleva dire?” Parafraserò una frase del famoso letterista Todd Klein, che lo diceva del suo mestiere: un traduttore è come le posate al ristorante. Le noti solo se sono sporche. Idealmente, un traduttore che fa davvero bene il suo lavoro dovrebbe far pensare al lettore che lo scrittore dei testi è davvero bravo, senza che ci si ponga il problema di chi ha mediato le sue parole spostandole dalla cultura che le ha generate a quella di una lingua completamente diversa. Tuttavia, siccome quello delle traduzioni è un mondo molto meritocratico – che è un modo gentile per dire che quelli bravi spiccano perché c’è un sacco di lavoro anche per quelli meno bravi – e i lettori sono stati spesso esposti, loro malgrado, a traduzioni farraginose, o troppo letterali, o che non indagavano abbastanza a fondo sulle intenzioni dello scrittore, si finisce per notare anche la bravura dei traduttori più validi. Il che è giusto e sacrosanto ma, ripeto, in un mondo ideale non succederebbe.

Tra le trappole più comuni c’è quella di voler tendere ad adattare troppo. Per la cultura francese, che ha praticamente bandito l’esterofilia, è normale far seguire qualunque parola straniera da un asterisco che ne spiega il significato in francese in calce alla vignetta. Certo, se un fumetto americano fa riferimento a un episodio del Late Night Show non potete tradurre facendo diventare quel programma il Maurizio Costanzo Show (ve l’avevo detto: vecchio come il cucco). Se il contesto consente di capire il riferimento senza bisogno di note o stravolgimenti, tanto meglio.

Digressione: la nostra cultura ci permette di fare lo stesso con gli effetti sonori. Una rana americana fa ribit! Ribit! e non c’è bisogno, per questo di farle fare cra! Cra! Se fossimo olandesi, però, un roditore che mastica del legno facendo scrunch! verrebbe “doppiato” e il suono diventerebbe scrontsij!

Anche per quanto riguarda il ricorso alle note, vige la regola del buonsenso: se un gioco di parole risulta realmente intraducibile, può rendersi necessario fare una nota a pie’ di vignetta o di pagina, perché se il lettore non comprende il calembour non può procedere serenamente nella lettura. Se una nota si rende necessaria per contestualizzare un aspetto culturale che il lettore italiano potrebbe ignorare, invece, è preferibile contemplare una sezione di note in appendice all’opera, per non appesantire le tavole, alterandone l’equilibrio visuale creato dal disegnatore.

Un aspetto specifico delle traduzioni a fumetti è l’uso dei neretti, proprio in maniera particolare dei fumetti americani. Molto spesso si vedono traduzioni in cui sono state rese in neretto le stesse parole che lo erano nella versione inglese, e in certi casi è un errore. Il neretto nei dialoghi di un fumetto è un’enfasi su una specifica parola che a volte si può comprendere solo leggendo la battuta ad alta voce. Spostare quell’enfasi in un altro punto di una frase la può far cambiare impercettibilmente, e l’accumularsi di piccole variazioni di intento, neretto dopo neretto, può realmente cambiare il tono di un dialogo, tradendolo.
In certi casi poi è semplicemente sbagliato.
Immaginiamo che un personaggio ringhi all’interlocutore, stizzito: Don’t tell me what to do!
La tentazione di tradurre con Non dirmi cosa devo fare! è forte, lo so. Però non ha alcun senso. In inglese “don’t” è un verbo, quindi l’enfasi è data all’imperativo. Se non si vuole nerettare troppo testo, è molto meglio dire: Non dirmi cosa devo fare! per far capire che chi parla si sta ribellando a quella che vive come una ingiusta imposizione. L’unico caso in cui in italiano avrebbe senso mettere in neretto la particella negativa sarebbe nel caso in cui la battuta precedente fosse: Sai quale sarebbe la sola cosa più grave di dirmi cosa devo fare? Non dirmi cosa devo fare! perché in questo caso evidenziare la negazione crea il contrasto paradossale con il periodo precedente.

In generale, nerettare le stesse parole del testo originale costituisce nel Fumetto una forma di calco, che è l’anatema assoluto del traduttore. Rendere pedissequamente la stessa forma strutturale di un’espressione da un’altra lingua vi rende vulnerabili: un lettore che abbia una anche modesta conoscenza della lingua di partenza si accorgerà di un calco, di una traduzione letterale ed errata, in qualche punto del testo, e da quel momento non si fiderà più della vostra traduzione. Ecco perché essere troppo letterali è un peccato veniale, e non accorgersi dei calchi è un peccato mortale, per un traduttore. La struttura di ogni frase va ripensata per la propria lingua, perché sia la scelta più naturale e appropriata.
Quando traducevo i romanzi di Tom Clancy, mi ero reso conto che c’erano alcuni verbi usati e abusati dagli autori americani per far prendere tempo ai loro personaggi. Uno era to lean back in the chair, ovvero appoggiarsi allo schienale della sedia. Durante i lunghi dialoghi pareva che i personaggi non facessero altro. Un altro era to shrug, ovvero scrollare le spalle. Veniva scritto così spesso che avevo preso ad alternare tre traduzioni per creare impercettibili varazioni emotive: alzare le spalle (ammissione di ignoranza), scrollare le spalle (disinteresse pilatesco per una faccenda) e fare spallucce (quando il personaggio voleva minimizzare). Questo perché nella lingua inglese le ripetizioni sono più tollerate e in certi casi sono considerate un tratto stilistico. In italiano sono invece segno di sciatteria e del fatto che il testo è stato riletto troppo poco.
Quando una ripetizione non è necessaria per uno stratagemma narrativo, se non viene eliminata usando opportuni sinonimi, è un calco concettuale e abbassa il livello qualitativo della traduzione.

Se state pensando di candidarvi per tradurre fumetti, scrivete all’editore dicendovi pronti a una prova di traduzione, e per prima cosa richiedete il loro normario. Il normario è un insieme di regole ortografiche e di formattazione che è bene tenere presente quando si lavora per una specifica redazione. Ogni Casa editrice ne ha uno diverso. Con il tempo imparerete a leggere una sola facciata di un libro e a capire che, per esempio:

«Ormai è tempo di andare» disse Jack, consultando l’orologio. «Non voglio aspettare che sia notte.»
è Rizzoli, mentre

«Ormai è tempo di andare», disse Jack, consultando l’orologio. «Non voglio aspettare che sia notte».
è Marcos y Marcos.

E non fatemi cominciare su quando il punto vada dentro le virgolette e quando fuori qui in BAO, perché c’è mezza pagina del normario solo su questo argomento. 🙂

Il tema delle traduzioni mi appassiona, e per noi qui scoprire una bella voce traduttiva è emozionante come scoprire un nuovo bravo autore. Ne riparleremo.
La settimana prossima, però, riprenderemo il discorso dei Foreign Rights. Dopo aver parlato di come si comprano, tratteremo l’aspetto inverso: la vendita.

Parlare chiaro per conquistare la fiducia dei lettori

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Quando abbiamo iniziato l’avventura di questa Casa editrice, oltre sette anni fa, c’erano una cosa che non sapevamo e una che sapevamo benissimo. Non sapevamo che non avremmo mai pubblicato cinque libri all’anno, come ci eravamo detti scrivendo i primi titoli che avremmo voluto tradurre sul retro dello scontrino di una birreria della Grand Place di Bruxelles; sapevamo però che la qualità che avevamo in mente per i nostri libri non sarebbe servita a nulla, se non fossimo stati in grado di farli arrivare tra le mani dei lettori. C’era dunque bisogno di raggiungerli, quei lettori, e c’era una sola cosa che potevamo dare loro senza costringerli a comprare nulla: qualità nell’informazione su ciò che facevamo.

Ci eravamo dati da subito alcune regole che, con il senno di poi, non sapevamo ancora che avrebbero influenzato profondamente il nostro modo di lavorare.
Non avremmo mai mandato newsletter. Volevamo rimanere sempre una fonte di informazione gradita e positiva, per i lettori, mentre sapevamo che dal momento in cui si riceve la prima newsletter, anche se ci si è iscritti volontariamente alla mailing list, la si considera spam.
Avremmo usato la pagina Facebook come organo di informazione principale. Da una parte c’era il rischio di dover ripetere certe informazioni più volte, ma per sapere qualcosa su noi o i nostri progetti i lettori sarebbero dovuti venire a cercarci, sulla pagina, e far compiere un’azione a un potenziale cliente è un primo passo verso un acquisto.
La crescita della nostra platea di pubblico sarebbe stata organica, non alterata da campagne promozionali. Avevamo letto che un negozio Ikea di Malmö, in Svezia, aveva chiesto ai fan della propria pagina di taggarsi sui mobili nelle foto che postava, e in cambio li avrebbero avuti in omaggio. Questo faceva apparire le foto della pagina aziendale sulle bacheche dei fan, costituendo di fatto un endorsement molto forte, e un’altra azione dal cliente verso l’azienda. Da sempre, regaliamo due copie di ogni nostro libro, quando arrivano in redazione le tirature, con questo sistema. È anche un ottimo modo per ricordare ai visitatori della pagina che la data di uscita dei libri che stanno aspettando si avvicina. Questa tecnica ci è stata copiata da un numero enorme di Case editrici, lo scrivo con il sorriso, visto che non era farina del nostro sacco, e con un certo orgoglio, perché per noi è stata una svolta comunicativa.
Il tone of voice delle nostre pagine social sarebbe stato amichevole, onesto e autorevole. Sulla pagina Facebook BAO si risponde alle domande dei visitatori dalle otto del mattino all’una di notte. L’account Instagram mostra anticipazioni di titoli in lavorazione, mentre con Twitter si informa su eventi, presentazioni, e si risponde ad altre domande dei lettori. Il tutto è gestito internamente, direttamente da noi, non da un’agenzia di comunicazione esterna.

La crescita da zero della nostra notorietà non è stata fulminea, proprio perché le nostre premesse si basavano su una lenta propagazione della reputazione che intendevamo costruire pubblicando libri di alta qualità. Diciamo che ci abbiamo messo un anno circa per essere pienamente soddisfatti della resa tecnica dei nostri volumi, e due per cominciare a sentire un trend preciso e identificabile nella crescita del consenso con il pubblico. Sono stati due anni nei quali abbiamo sperimentato sulla nostra pelle i sistemi di comunicazione e abbiamo imparato ad ascoltare il nostro pubblico per capire cosa volesse, anche se non lo abbiamo sempre accontentato.
Piano piano sono diventati importanti alcuni fattori che avevamo imposto fin dall’inizio.
La qualità dei materiali nei nostri libri, progettati senza compromessi, a costo di erodere i margini di profitto (al quarto anno abbiamo potuto iniziare a razionalizzare, studiando più attentamente il progetto economico di ogni libro, ma senza dover abbassare la qualità perché a quel punto erano cresciute le tirature, e potevamo strappare prezzi migliori ai fornitori senza scendere a compromessi sui materiali) ci stava facendo apprezzare dai lettori.
Lo zoccolo bianco con la testa del nostro logo, Cliff, in calce a ogni dorso dei nostri volumi, che avevo voluto perché sono miope come una talpa e volevo vedere dov’erano i nostri libri sugli scaffali delle librerie, stava diventando un punto di riferimento anche per tanti altri, magari meno miopi di me, e aggiungeva un valore collezionistico che ha reso “lo scaffale BAO” una delle foto in cui più spesso veniamo taggati su Instagram, per esempio.
La scelta dei titoli che pubblicavamo, suddivisi tra importazioni di pregio e “libri che non ti aspetti”, al punto che negli anni è nato il luogo comune “ho fatto un libro strano, mandiamolo alla BAO” che a volte rende molto strano il contenuto della casella di posta della redazione. Abbiamo sempre infuso nelle proposte di ogni anno editoriale una certa percentuale di progetti che sfuggivano alle definizioni di genere, senza alcuna certezza che avrebbero venduto bene, ma che contribuivano a rafforzare l’identità della nostra azienda pur nella necessaria eterogeneità di titoli che annunciavamo. Ecco, questa cosa è importante: vedevamo altre case editrici con cataloghi eterogenei, e non volevamo che il nostro potesse mai sembrare composto alla cieca, velleitariamente, senza pianificazione o un filo conduttore. Paradossalmente, il nostro elemento di coerenza negli anni sono stati i libri “strani”, non per forza coraggiosi, ma probabilmente incoscienti. A volte, imprevedibilmente, hanno anche venduto davvero bene. Sul perché, che è qualcosa di fondamentale e non scontato, ci torniamo tra poco.

Qual era lo scopo di questo meticoloso lavoro sulla percezione dall’esterno della nostra brand identity? Diventare un elemento ricorrente nella vita quotidiana delle persone che, potenzialmente, potevano diventare nostri lettori e arricchire l’esperienza di acquisto e lettura di chi già lo era.
Con il tempo, si è reso necessario farlo anche usando mezzi esterni, e questo ci ha portati a fare una considerazione: il lavoro sulla stampa e sui media è importante, ma è altrettanto vitale far parte del panorama mentale quotidiano delle persone. Il web è molto più pervasivo, più centrale nelle interazioni sociali e culturali di quanto non lo siano giornali e riviste, in questi anni. Ecco perché abbiamo sempre dato importanza e attenzione ai blog letterari, per esempio, e ai siti di settore, dotandoli di anteprime, inviando libri per recensioni, organizzando blog tour che creano un reale engagement attivo da parte dell’utenza, magari mediante un giveaway, che consolida ulteriormente il rapporto editore-lettore, visto che spesso la ricompensa consiste in copie autografate e con dedica, o disegni originali degli autori dei libri di cui si parla.
La posta in gioco è potenzialmente alta, perché se si parla regolarmente di fumetto diventa normale cercarne, fruirne, e man mano che l’utenza dei canali specializzati si amplia e gli scaffali delle librerie generaliste si popolano di sempre più titoli a fumetti, il mercato cresce, sì, ma in esso si affermano solo i prodotti più forti, più convincenti. La reputazione che le strategie mediatiche costruiscono viene messa alla prova dei fatti, perché la concorrenza è tanta, come è giusto che sia.

E allora come si fa a costruire qualità? Inutile dire c’è una componente ineffabile nel procedimento: se un libro meriti di essere pubblicato e, di conseguenza, letto, è qualcosa che si può intuire, ma non sapere per certo. Un editore nel quale convivano passione e competenza (in proporzioni variabili ma commensurabili) sa come scegliere i titoli da pubblicare, ma non è detto che sappia portarli al successo. Ogni passaggio dal progetto iniziale all’uscita di un libro è un segmento, che va da un punto di partenza a uno di arrivo: dall’intenzione di pubblicare all’offerta da fare all’autore; dal soggetto alle tavole finite; dal progetto grafico ai file da mandare in tipografia; dalla cartella stampa agli articoli/recensioni/passaggi televisivi; dall’uscita alle fiere/presentazioni/tour promozionali e via dicendo. Perché ciascun segmento sia efficace, oltre a dover essere seguito da persone competenti, è necessario che tutti i segmenti siano adiacenti e consecutivi, che portino, insomma, in una stessa direzione. Qui in BAO facciamo così: dal momento in cui firmiamo il contratto per un titolo coinvolgiamo nel progetto subito tutti: così i grafici possono farsi un’idea di cosa dovranno portare al tavolo per rendere unico quel libro, il responsabile commerciale si renderà conto delle somiglianze (spurie, ma utili per spiegarsi con la rete promozionale) tra quel libro e altri che sono stati promossi e venduti negli anni precedenti (i cosiddetti gemelli), l’ufficio stampa comincerà a capire come approcciare la comunicazione verso i media, dati l’autore, i temi, la tipologia del progetto. Insomma, quando quel libro sarà pronto ad andare in stampa, noi lo avremo già virtualmente venduto a moltissime persone, perché saremo stati noi a far sapere loro che quel libro esisterà, e a convincerli che lo desiderano.

Qualche paragrafo fa ho accennato al fatto che di tanto in tanto siamo piacevolmente sorpresi dalle buone vendite di libri che abbiamo pubblicato senza aspettarci nulla da loro se non il loro essere “molto da BAO”. Il motivo per cui quei libri vendono è soprattutto dovuto al fatto che ormai i lettori si fidano di noi. In seconda battuta, quando scoprono che il libro, per quanto strano e difficile da inquadrare in poche parole, è anche molto bello e ben realizzato, quella fiducia viene confermata e l’atto di fede di comprare un libro BAO pur non sapendone niente potrà prodursi nuovamente, in futuro. Questa è la cosa più magica che ci succeda, davvero, ed è dovuta al fatto che siamo riusciti a convincere moltissime persone a spendersi in prima persona per parlare di ciò che facciamo.
Quando dicevo che i blog letterari hanno, a un certo livello, più capacità di penetrazione nelle coscienze dei giornali, non era certo disistima per la carta stampata. Ma così come se un inviato di guerra vi racconta il conflitto tra i curdi e l’ISIS vi pare una cosa normale, mentre se ci va Zerocalcare diventa un evento eccezionale, i lettori sanno che i recensori fanno quello di mestiere: recensiscono. Mentre se una persona normale, la cui passione la spinge a scrivere di ciò che ama leggere, parla di un fumetto BAO, chi legge quell’endorsement ci fa caso, prende nota, probabilmente alla prossima visita in libreria ci cercherà tra gli scaffali.
Da chi si tagga sulle foto dei libri adagiati sul parquet del nostro ufficio per averne una copia in omaggio a chi posta la propria libreria su Instagram, fino a chi scrive lunghi articoli per dire quanto ha amato Il porto proibito, il coinvolgimento diretto delle persone è il motivo per cui i lettori si fidano di noi, per cui sempre più lettori si fidano di noi. Non era qualcosa che potevamo sapere per certo all’inizio, ma lo volevamo fortemente. Se c’è stata una strategia, è stata quella della coerenza. E ora la qualità parla per noi, e lo fanno anche i lettori, ed è bellissimo leggerli e ascoltarli, ve lo confesso.

La settimana prossima parliamo di calligrafia, ma non di lettering. 🙂

Proposte indecenti

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Questo è un post motivazionale. O vi mettevo “Ricominciamo ” di Adriano Pappalardo, o “I’ll make a man out of you” da Mulan, ma trovo che il sergente istruttore di Ufficiale e Gentiluomo sia sempre un’ottima scelta, per queste cose. 

Se davvero devo scrivere cinquanta post di questo blog, nell’anno che è appena iniziato, è davvero il caso che cominciamo dalle basi.

Nel 2016 BAO ha ricevuto circa duemilacinquecento progetti con richiesta di pubblicazione, spediti alla casella della redazione da aspiranti autori. Quando abbiamo aperto l’Open Call per i titoli della rinnovata linea per giovani lettori BaBAO, sono arrivati altri quattrocento progetti.

C’è uno spazio selvaggio e indefinito, tra dove vi trovate voi che volete Cliff sulla copertina del vostro primo (o prossimo) libro e la mia scrivania. Coprire quella distanza è compito vostro, accogliervi all’arrivo è il nostro. Noi ci auguriamo che anche quest’anno ci scriviate in molti, e faremo del nostro meglio per reagire prontamente (anche se il nostro lavoro primario è fare i libri che sono già calendarizzati, quindi armatevi comunque di molta pazienza, potremmo metterci qualche mese a rispondervi). Già che ci siamo, però, vi lascio qualche considerazione potenzialmente utile, più per farvi capire cosa dovreste cercare voi che non cosa cerchiamo noi.

  1. Se la lettera che accompagna il vostro progetto vi fa sembrare maleducati o matti, non vi risponderemo. Il modo in cui vi ponete nei confronti di quello che vorreste diventasse il vostro editore dice molto del vostro modo di lavorare. Se possiamo evitarci il fastidio di lavorare con persone sgradevoli o completamente pazze, lo facciamo. Questo è il SOLO caso in cui proprio non rispondiamo a una mail.
  2. Ci sono delle regole generali per inviare un progetto. Non è che vi ignoriamo per dispetto se voi ignorate loro, ma se le seguite la nostra vita sarà leggermente meno complicata e vi vorremo immediatamente più bene.
  3. Dovreste scrivere le storie che avete veramente voglia di raccontare. Però se la vostra pulsione narrativa più forte è raccontare una nuova interpretazione di qualcosa che è stato fatto alla nausea negli ultimi decenni, fatevi un favore: lasciate perdere.
  4. Se avete in mente una storia post apocalittica in cui una ragazza bionda con i capelli scalati in modo bizzarro scopre suo malgrado di essere la prescelta per sarcazzo: ma anche no, grazie.
  5. Se avete in mente una storia intimista, un romanzo di formazione la cui caratteristica è di essere ambientato in provincia: vedete punto 4.
  6. Se state cercando di creare una storia che pensate piacerebbe ai lettori di qualcosa che è attualmente in corso di pubblicazione, pensateci bene: potrebbe avere senso, ci sono storie che si ascrivono a generi o a stili narrativi che non passeranno mai di moda, ma se iniziamo a lavorare ora a un libro insieme, uscirà tra almeno due anni. Pensate che la vostra idea sarà ancora attuale? Se la risposta che vi date è sì, perfetto, vi aspettiamo.

Ecco, questa cosa è molto importante. A volte ho la sensazione che anche le scuole di fumetto tendano a ignorarla, ed è comprensibile: il Fumetto è meritocratico, il diploma di una scuola non dà diritto a nessun canale preferenziale per accedere a questa industria, quindi la tendenza generale è a preparare per l’inserimento professionale negli ambiti dove c’è più bisogno di manodopera: i comics americani, la Sergio Bonelli Editore. Quindi spesso chi non si conforma a un certo modo di narrare (tanto nella scrittura quanto nel disegno) fatica a completare il corso di studi con successo, ma non è detto per questo che non valga: magari ha semplicemente un approccio diverso dal modo di narrare attualmente in voga. Sarebbe bello che le scuole di fumetto sfornassero più autori e meno automi, cosa che riesce a quegli insegnanti che riescono a pensare fuori dagli schemi e fuori dai generi. Anche perché mica tutti i generi sono perennemente praticabili, dal punto di vista commerciale, eh. Il che ci porta a

  1. Spedite progetti pensati per l’editore al quale vi rivolgete. Mandare una proposta di pubblicazione a una Casa editrice non è come spedire un curriculum a più aziende. Non basta personalizzare l’intestazione. Un progetto “per tre cartonati alla francese” mandatelo in Francia, non a BAO. Non sappiamo cosa farcene di volumi da 48 pagine, semplicemente perché il mercato chiede volumi più corposi, e possibilmente autoconclusivi. (Ci sono eccezioni, ovviamente, ma se devo scegliere tra una serie di Brian K. Vaughan, e una di un Tony Siracusa*, per il mio prossimo piano editoriale, oddio, uhm, fatemi pensare, questa è difficile…)
  2. Sarete anche cresciuti con Linus, ma se il vostro progetto è a strip non ha alcun senso. Ripensatelo in un formato narrativo più fluido, perché tanto non verrà mai pubblicato una striscia alla volta.
  3. Le storie puramente comiche sono passate di moda. Ci sarà sempre spazio per sprazzi di geniale comicità, in editoria, ma fidatevi: è passé come un disco dei Milli Vanilli.

Ecco, la cosa dei generi è tricky da spiegare. Non ci sono assoluti. Per esempio, alcuni dei migliori autori italiani con cui BAO lavora stanno facendo storie di fantascienza. Francesco Guarnaccia ne sta realizzando una (fantascientifica nella premessa, ma umana e introspettiva nelle tematiche narrative), Nicolò Pellizzon è al lavoro su una tetralogia di fantascienza epica (sfatando in un colpo solo due delle cose che ho scritto prima: è tecnicamente una serie e appartiene a un genere che in BAO abbiamo praticato sempre poco). Matteo De Longis, per il suo primo lunghissimometraggio a fumetti, ha scelto una space opera (musicale). Il prossimo biennio sarà pieno di storie ispirate alla fantascienza, fidatevi. Non solo quelle che pubblicheremo noi. Quindi, in fin dei conti, mai dire mai. Però tenete presente una cosa che vi spalancherà molte porte (se il vostro lavoro vale):

  1. Questo è il momento delle storie all-ages. Quelle adatte a più fasce d’età, ma sicuramente non troppo adulte nelle tematiche. La vostra stella polare in questo frangente dovrà essere Bone, ma se volete qualcosa di più recente, pensate a quanto importante è stato, in tutto il mondo, Nimona di Noelle Stevenson: una storia pensata per le adolescenti, ma che parla proprio a tutti, perché tocca temi classici in modo innovativo e originale.

Ne abbiamo parlato, prima che io scrivessi questo post: si sta affermando una nuova generazione di autori, in questo momento. Per anni ha cercato una voce, una forma. L’Homo Barbuccicus è evoluto in Homo Pedrosicus e ora sta diventando… Steven Universe.

Non fate quella faccia, è vero. La generazione che sta prendendo d’assalto il mercato, stilisticamente e narrativamente, è quella influenzata da Adventure Time, da Steven Universe. Lo zeitgeist del Fumetto moderno ha le sopracciglia folte e grandi occhi tondi. E in Italia l’artista che al momento rappresenta, secondo noi, la summa artistica della sensibilità narrativa moderna, è Gio Pota.

Gio è il prossimo caposcuola, the next big thing, l’apice delle tendenze di segno, storytelling, mood emotivo cromatico.

Ecco, se dal paragrafo precedente avete evinto che fareste meglio a disegnare come lui, non avete capito il resto di questo post. Gio è venuto su a pane e cartoni animati, ed è diventato un artista della Madonna. Non si è preoccupato di cosa andava di moda, ha lavorato su di sé, sul proprio metodo di narrazione visuale, lasciandosi influenzare dalle cose che amava. E tra quattro mesi lo vedrete esplodere in un libro memorabile.**

Queste considerazioni non avremo il tempo di farvele quando vi risponderemo, dopo aver ricevuto i vostri progetti, ed è un peccato, perché il nostro mestiere non è rifiutare le proposte degli aspiranti autori, ma pubblicare libri belli, e questo succede anche se ci prendiamo la briga di spiegarvi cosa non va e come migliorare. È per questo che per tutto l’anno, a tutti gli incontri in libreria e fumetteria cui parteciperà direttamente un membro della redazione, un’ora prima di ogni evento o presentazione daremo appuntamento agli aspiranti autori per un question time a trecentosessanta gradi. Potrete chiederci quello che vorrete, ed eventualmente lasciarci i vostri progetti direttamente. Speriamo che sia un primo passo per un migliore dialogo tra noi. Vogliamo, con tutti noi stessi, che ci stupiate.***

 

* Tony Siracusa, per indicare “Pinco Pallino”, è una creazione di Marco Schiavone.
** Scritto da Luca Vanzella. Si intitola Un anno senza te. Ne riparleremo.
*** Ovviamente se avete domande fin da ora, commentate questo post, io vi risponderò sempre. Tranne se ricadete nel punto 1.

Insegnare un mestiere, imparare un mestiere

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Qualche giorno fa ero su un treno (ci ho passato quasi trecento ore, quest’anno, ho calcolato) e pensavo al fatto che non aggiorno questo blog da un pezzo. Ho cominciato a pensare a come strutturare un programma di post regolari che coprano tutti gli ambiti dell’attività editoriale, e ho preso qualche appunto. Poche ore dopo, sono stato fermato per strada da una persona che mi ha chiesto, letteralmente: “Perché non scrivi più su I tipi di BAO?
L’ho preso come un segno del destino. E ho preso altri appunti. Da inizio gennaio mi impegno a scrivere un post a settimana, cascasse una pannocchia, e di accettare richieste sui temi da trattare, anche se ho già in mente diversi mesi di argomenti. Lo farò come se mi restasse un solo anno per insegnare a qualcuno il mio mestiere, una pratica che in Italia è sempre guardata con un certo sospetto ma che, se ci pensate bene, è la sola cosa che un lavoratore coscienzioso possa realmente trasmettere ad altri.
Se avete temi che vi interessano particolarmente, lasciate qui un commento o scrivete sulla nostra pagina Facebook. Io vi aspetto, fischiettando una opportuna canzone di Crosby, Stills, Nash & Young.

Ti scatterò una foto

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Ieri sono stato a Roma, perché Leo Ortolani presentava CineMAH – Il buio in sala in una grossa libreria Feltrinelli. Ci sono andato perché volevo accogliere Leo, fargli fare check in in albergo e assicurarmi che incontrasse i giornalisti giusti all’ora giusta. Sono stato via in tutto dieci ore, di cui sei passate sui Frecciarossa, e siccome volevo documentare l’assurdità di un viaggio tanto breve, ho scattato e postato alcune foto. In libreria, a un certo punto, sono arrivati alcuni altri autori BAO, venuti spontaneamente a salutare Leo. E a un certo punto mi è venuta voglia di fare questo scatto che, ci ripenso ora, a mente fredda, fotografa il Fumetto italiano in modo trasversale e piuttosto completo. Toni Bruno, Zerocalcare, Giacomo Bevilacqua, Roberto Recchioni e Leo Ortolani. Quanto siamo fieri del fatto che tutti stiano pubblicando (anche) con BAO non ve lo so dire.

Ieri i lettori presenti hanno finito per chiedere dediche a tutti, e nessuno si è tirato indietro. Era una bella festa a fumetti, un momento sereno, carico del potenziale delle cose che vogliamo fare in futuro.
Mi andava di condividere.

It’s a long way to the top (if you’re into graphic novels)

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Per la seconda settimana consecutiva, Kobane Calling di Zerocalcare è stato sul podio della classifica generale di vendita dei libri in Italia, perdendo una sola posizione dal primato, perché è uscito il nuovo romanzo di Marco Malvaldi dedicato agli irresistibili vecchietti-detective del BarLume, di cui siamo fan anche noi qui in BAO.
Per chi si chiedesse le proporzioni esatte del successo di quello che sembra voler diventare rapidamente il nostro bestseller assoluto, ecco qualche numero:

  • Kobane Calling è stato stampato in 100.000 copie.
  • La sera prima dell’uscita, nelle aperture serali di quattro librerie Feltrinelli a Milano, Bologna, Roma e Napoli ne sono state vendute circa 1.400 copie.
  • A due settimane dal lancio, circa 68.000 copie della tiratura sono state distribuite, il che significa che se avessimo mantenuto la tiratura del titolo precedente di Zerocalcare (L’elenco telefonico degli accolli, 2015), saremmo già in rottura di stock.
  • Nella prima settimana, le fumetterie ne hanno ordinate 3.000 copie e le librerie generaliste (comprese le online) ne hanno vendute circa 16.000.
  • Nella seconda settimana, l’ordine totale delle fumetterie è arrivato a 4.000 copie, mentre il canale generalista (tra brick and mortar e online) ne ha vendute altre 9.000.
  • A Milano, Kobane Calling è ancora il libro più venduto in assoluto.

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  • Noi continuiamo a essere in tour, e prevediamo che la data di Milano il 10 maggio, la presenza al Salone del libro di Torino il 14 e 15 e la data di Bologna il 17 ci sfiancheranno definitivamente.

Hit the road, Zero

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Raggiungere nuovi lettori, nuove tipologie di lettori, per noi di BAO è fondamentale, se il medium Fumetto deve realmente affermarsi tra le abitudini di lettura e di acquisto degli italiani. Per farlo, in molte occasioni all’anno, invitiamo i nostri autori a fare book tour nelle librerie, nelle fumetterie, ai festival e alle fiere. Personalmente, sarò on the road fino a metà giugno, al seguito di (in ordine di tempo) Zerocalcare, Noelle Stevenson, Terry Moore, Leo Ortolani, Koren Shadmi e gli ospiti BAO di Etna Comics, ultimo impegno pubblico prima dell’estate.
Per tutti quelli che sono convinti che il mio ruolo di editore e accompagnatore degli ospiti, in quelle occasioni, consista nel mangiare a quattro palmenti in ottimi ristoranti, la settimana scorsa ho realizzato questo piccolo video, a testimonianza di una missione-lampo nella bella Bari.

Zerocalcare a Bari from BAO Publishing on Vimeo.

Ricominciamo a parlare di storie

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[Siccome è da un po’ che non posto nulla sul blog aziendale, ho pensato di scusarmi con un testo del mio poeta americano preferito, e.e. cummings, che mi sembra molto adatto al nostro mestiere e a questo periodo, in cui un po’ tutti cercano di far saltare in aria il mondo. Nei prossimi giorni ricominciamo a parlare di editoria, ma per oggi si parla di emozioni.]

Consiglio da poeta

Un poeta è una persona che sente, e che esprime a parole le proprie emozioni.
Può sembrare facile, ma non lo è.
Molti pensano o credono o sanno di sentire, ma questo è pensare o credere o sapere; non è sentire. E la poesia è sentire, non sapere o credere o pensare.
Quasi tutti possono imparare a pensare, a credere o a sapere, ma non esiste un essere umano cui si possa insegnare a sentire. Perché? Perché quando pensi o credi o sai, sei molte altre persone; ma nel momento in cui senti sei nessuno-a-parte-te.
Per essere nessuno-a-parte-te – in un mondo che fa del proprio meglio, ogni santo giorno, per renderti come tutti gli altri – significa combattere la battaglia più feroce in cui un essere umano possa impegnarsi; e non smettere mai di lottare.
Quanto a esprimere nessuno-a-parte-te a parole, questo implica lavorare un poco più duramente di quanto possa immaginare chiunque non sia un poeta. Perché?
Perché non c’è niente di più facile dell’usare le parole come qualcun altro. Tutti noi lo facciamo quasi sempre. E quando lo facciamo, non siamo poeti.
Se, alla fine dei vostri primi dieci o quindici anni a lottare e lavorare e sentire scoprirete di aver scritto un verso di una poesia soltanto, sarete già molto fortunati.
Quindi il mio consiglio per tutti i giovani che desiderano diventare poeti è: fate piuttosto qualcosa di facile, come imparare a far saltare in aria il mondo, a meno che non siate non solo disposti, ma ansiosi, di emozionarvi, lavorare e lottare fino alla morte.
Vi pare una prospettiva triste? Non lo è.
È la vita più meravigliosa possibile.
O almeno, questo è ciò che sento.