Si trasloca!

Cari lettori di questo blog–
solo due righe al volo per dirvi che da oggi BAO Publishing ha un nuovo sito, e che il blog sarà integrato in esso. I vecchi articoli resteranno qui, ma da oggi troverete i nuovi qui: https://baopublishing.it/blog/
Vi aspetto, con aggiornamenti frequenti e, spero, interessanti.

Fumetterie USA – Los Angeles

IMG_6675
Cominciamo con il mini-tour delle fumetterie dell’Ovest americano che avevo preannunciato nel post precedente. Si parte da Los Angeles, una megalopoli che di fumetterie ne ha tantissime, ma sparse su un’area così vasta che è difficile che si rivolgano tutte alla stessa utenza.
A Shop Called Quest ha aperto la sua prima location californiana quasi venticinque anni fa, la seconda circa cinque, e la terza undici mesi fa. È proprio in questo negozio – situato a downtown Los Angeles, in un complesso destinato a diventare una sorta di centro commerciale, ma per ora popolato più che altro da locali dove mangiare o bere un caffè – che siamo entrati oggi, martedì 19 luglio, nelle prime ore del pomeriggio. Sapevamo di dover chiedere di Ray, il direttore del negozio, che ci ha raccontato di lavorare per A Shop Called Quest da circa otto anni.

IMG_6677
Ci ha parlato della sua clientela, molto diversificata ed eterogenea, e del fatto che sente che il punto di forza del negozio è il servizio alla clientela. “Buona fortuna a quelli che pensano che per scoprire nuovi fumetti bastino le recensioni e le librerie online” dice Ray. “Qui è dove il gusto del cliente incontra la sensibilità di chi vende, e se facciamo bene il nostro lavoro chi ci scopre per caso tornerà.”

Gli ho chiesto quale sia la cosa che migliorerebbe, se potesse, del suo lavoro. “Nonostante il fatto che ormai abbiamo tre negozi, fatichiamo ancora a negoziare con il distributore. Non so quanti punti vendita si debbano avere per poter parlare di extra sconto o di maggiore attenzione verso di noi, ma spero che in futuro le cose cambino.”
Gli ho poi chiesto se il suo pubblico sia composto più da clienti regolari o da gente del luogo che entra incuriosita dalla bella vetrina e dagli arredi in legno naturale del negozio.
“Il mercoledì è il giorno delle uscite dei fumetti nuovi, e noi cerchiamo di avere sempre qualche artista locale, anche non famosissimo, che disegni in negozio. Grazie all’accordo con uno dei locali della zona, se compri almeno due titoli quel giorno hai lo sconto sulla birra. I clienti regolari vengono quasi tutti il mercoledì, il che crea un bel capannello di persone motivate e allegre che, vuoi per i fumetti, vuoi per la birra, si soffermano a lungo in negozio, quel giorno. Questo aiuta a trasmettere una sensazione di energia positiva che attira anche i passanti. Quindi il mercoledì diventa un momento piuttosto interessante, per gli affari, ed è un’ottima cosa avere una giornata così a metà della settimana, in attesa delle vendite del weekend.”

IMG_6678
La cosa interessante del negozio gestito da Ray è la commistione di prodotto commerciale, arretrati, romanzi grafici anche di editori molto piccoli e gadgettistica che va dagli immancabili Funko a pin smaltati legati al mondo delle fanzine più alternative. “Più volte l’anno ospitiamo una sorta di mini convention di fanzine. Questo attira tutta una fetta di pubblico che magari inizialmente è interessata solo a quel genere di pubblicazioni, ma che comincia a prenderci come punto di riferimento per quando ha desiderio di fumetti. Questa è la cosa più importante: diventare un posto che la gente ha voglia di visitare quando passa da queste parti. Crescendo a LA anche io andavo sempre da Meltdown Comics, o da Golden Apple. Il nostro scopo è sempre stato diventare un tempio dei fumetti per antonomasia come lo sono stati in passato quei negozi. Poco a poco, credo che ci stiamo riuscendo.”
La sensazione generale è che, in un’area con una concorrenza sistematica e agguerrita, il modo migliore per affermarsi in questo campo sia quello di personalizzare fortissimamente il servizio.

Il prossimo post, ovviamente, sarà dal Comic-Con di San Diego.

Cosa possiamo imparare oggi?

IMG_6359

Me lo domando tutte le mattine, non solo quelle in cui vengo in ufficio, nella speranza di trovare sempre ispirazione per lavorare meglio. So di avere trascurato questo blog, e ultimamente l’ho fatto di proposito: ho preferito il fare al parlare di ciò che faccio. Tra pochi giorni però partirò per un viaggio piuttosto importante e ho deciso di entrare in una fumetteria in ogni città dove mi fermerò, di fare domande e di dedicare alle risposte di ciascun negozio un post proprio qui. Per capire in che modo il mercato sia diverso negli USA, in cosa invece somigli al nostro, e se ci siano buone idee che possono ispirarci. Se la connessione degli hotel ci assiste, aspettatevi quattro o cinque post, da altrettante località. Alla settimana prossima!

La straordinaria capacità infettiva delle idee

TG2

La sera di giovedì scorso è stata surreale, per me: in primis ero ufficialmente entrato nel weekend, perché il giorno dopo sarebbe stato di festa. Quella cosa di essere a casa alle venti era già perturbante, per me. Poi c’erano i notiziari: stentavo a credere ai miei occhi. Quando mai ci era successo di apparire la stessa sera al TG1, al TG2, al TG5 e al TG di La7? Ci ho messo i primi due solo per smettere di essere nervoso.

Sì, perché per una volta non avevamo nessuna voglia di far parlare di noi. Zerocalcare aveva fatto un post sulla sua pagina Facebook per annunciare che una persona di cui aveva raccontato in Kobane Calling era morta, in combattimento, non lontano da Raqqa, in Siria. Ayse Deniz Karacagil, detta Cappuccio Rosso. La sua storia è tragica, ma piena di dignità, e se in Italia la si conosce, è perché Michele ne ha parlato nel suo libro.
La giornata di giovedì è trascorsa a declinare richieste di intervista, di commento, di disegni, di prese di posizione. A tutti abbiamo detto: La notizia è che l’autore ha fatto un post su una cosa che gli sta a cuore. Non ci sembra il caso di commentare oltre. Piano piano, abbiamo convinto tutti che fosse meglio così.

La sera, però, mi sono trovato a guardare i telegiornali. Forse in virtù del fatto che le redazioni avevano immagini di Ayse, non si trattava solamente di servizi su Zerocalcare. Tutti però erano concordi nel far notare che era stato lui a tirare Ayse fuori dai numeri, dalla massa informe e indefinita delle persone che protestano, e combattono, e fanno scelte di vita estreme in quella parte di mondo.
Siccome avevamo passato la giornata all’insegna del nervosismo, determinati a non sfruttare una notizia tragica per vendere qualche copia di un libro, e a non permettere a nessuno di ricamare sulla storia, facendo pensare al pubblico che ci stessimo speculando, quella sera gli ho scritto a lungo per fargli notare che però, forse, qualcosa di buono lo avevamo fatto. Perché tutte le volte che un libro fa la differenza tra la consapevolezza e l’indifferenza, quando è capace di costringere la gente a non voltarsi dall’altra parte per non guardare i problemi, mi ricordo perché continuiamo a lavorare e lottare per questo mestiere che sembra così anacronistico, incapace di competere con media più veloci, più ficcanti, più spettacolari. Perché c’è bisogno di qualcosa che resta, per quando la gente decide di voler capire le cose. È importante che ci siano voci oneste che parlano di come si combatte ogni ingiustizia, ogni oscurantismo, ogni sopruso.
Ancora stento a credere che un libro così importante, che ha colpito così profondamente le coscienze dei lettori, sia qualcosa che abbiamo fatto noi. Che sia un libro a fumetti, invece, non mi stupisce per niente. Da queste parti (e non siamo i soli) abbiamo sempre creduto nel potere della franchezza della narrazione a fumetti, della ricchezza del suo linguaggio. Che poi, per una volta, un libro necessario sia anche un libro di successo, non guasta affatto, ma come ha sempre detto Cesare De Michelis, il presidente della Marsilio: “È più bello vendere i libri che si fanno che fare i libri che si vendono.”
Sono finite le fiere di primavera, quindi torna l’appuntamento regolare con il blog. Grazie della pazienza in queste settimane di silenzio.

Qualche dato sulle letture e sui lettori

IMG_3416

(Questa settimana vi devo due post, perché la settimana scorsa ne ho saltato uno. Mentre lavoro, in diverse città, a quello che avevo in canna, ecco qualche dato sul quale riflettere.)

Questa settimana apre a Milano Tempo di libri, la nuova fiera dell’editoria, e dopo la presentazione dell’iniziativa, nella cartella stampa ho trovato un foglio che riporta alcuni dati importanti sullo stato dell’editoria in Italia. Forse sono cose che non tutti sanno, e sulle quali è bene soffermarsi.
L’editoria italiana è il sesto mercato al mondo per fatturato, e l’ottavo per numero di titoli pubblicati (che nel 2016 sono stati 63.608).
Si sono venduti all’estero i diritti di 6.229 titoli italiani, l’anno scorso.
Il mercato vale, a prezzo di copertina, poco meno di tre miliardi di euro all’anno.

Poi arriva il dato al quale non vorrete credere.

I lettori di libri, nella popolazione dai sei anni d’età, sono il 40,5% del totale.

Due domeniche fa ho preso la metropolitana per andare al supermercato. All’arrivo, ho visto una scena che mi ha fatto riflettere. Una donna cercava febbrilmente qualcosa nello zainetto mentre, oltre i tornelli, il marito con passeggino le chiedeva: “Che succede?” Lei ha risposto: “Non trovo più il biglietto.” E lui, perplesso: “Oh, bella. Eppure l’hai timbrato poco fa!” Tra lei e lui, sui tornelli, in bella vista, la scritta ripetuta più volte USCITA LIBERA, che indicava il fatto che in quella stazione non è necessario timbrare il biglietto a fine viaggio. Lei guardava in quella direzione, ma non aveva alcuna intenzione di leggere quella scritta, che pure le avrebbe risolto un problema.

Ecco, quella signora fa parte del 59,5% di persone che incontrate ogni giorno che non legge un libro. Mai. Le ragioni per cui non le sembri importante – al punto che sta disimparando a leggere perfino la segnaletica, le istruzioni sugli apparecchi, gli avvertimenti nei luoghi pubblici – sono la cosa che più mi interessa al mondo, per via del lavoro che faccio, e saranno oggetto di studio di numerosi post futuri, a partire da quello che arriverà a breve, a chiusura del discorso sulle copertine.

Ah, che invece un lettore di libri su quattro non si formalizzi a leggere un ebook invece mi fa molto piacere, perché per quanto sia importante fare libri con cura artigianale, che la sostanza vinca sulla forma è un segnale estremamente incoraggiante.

 

Costruire una copertina – Seconda parte

IMG_3205
Riprendiamo il discorso sulle copertine, uno dei temi più spinosi in editoria, e ancora di più per i fumetti. Tra pochi giorni ne trarremo qualche conclusione insieme, è un tema emblematico e che ne contiene molti altri. Per ora, venti regole distillate da altrettanti anni di esperienza personale: 

Per gli autori: Dieci cose da tenere a mente quando discuti con il tuo editore la copertina del libro

10) Il compito della copertina del tuo libro è prima attirare il lettore verso il volume e poi rappresentarlo in termini estetici e narrativi.
Questo pensiero non ti piacerà, ma l’arte è il nucleo, la comunicazione è la buccia. E la copertina è la buccia del tuo libro. Pura comunicazione.

9) Non puoi farci stare tutta la trama della tua storia, quindi non ci provare nemmeno. Chi guarda la copertina del tuo libro ancora non lo sa, di cosa parla. Quindi non ti può accusare di essere stato impreciso o incompleto nella rappresentazione della storia in copertina.

8) Cerca di trasmettere con onestà l’atmosfera del tuo libro. Anche perché appena qualcuno lo sfoglierà, se non lo avrai fatto si noterà. E se copertina e interno stridono, non viene voglia di comprarlo.

7) Le copertine in larga parte nere sono belle, ma tendono a sparire tra gli altri libri.
Il nero è fotoassorbente. È fatto apposta per non farsi notare, soprattutto quando opaco. Gli altri libri si vestono come per andare a sculettare al sambodromo e tu sembreresti vestito come Steve Jobs.

6) Le copertine in larga parte bianche sono belle, ma tendono a costringere lo sguardo verso un dettaglio.
Il bianco abbacina, è elegante (se la copertina è plastificata non si sporca nemmeno troppo), ma di quei quattrocento centimetri quadrati che avresti a disposizione per attirare il lettore verso il tuo libro tu hai deciso di disegnarne solo trentasette. E ci fai una piuma. Beige e grigia. Su bianco. Buona fortuna.

5) Come diceva la pubblicità di un noto shampoo, non avrai una seconda possibilità di fare una prima impressione. Domandati qual è la cosa che più ti importa che si sappia subito del tuo libro e disegna di conseguenza.

4) La composizione è importante. Domandati qual è la prima cosa che vuoi che si noti della tua copertina, per gestire l’ordine di arrivo delle informazioni che ti stanno a cuore.

3) Se puoi, cerca di non imitare copertine altrui che ti sono piaciute. Il tuo libro è unico. Si deve capire da subito.

2) Tu conosci il libro meglio di chiunque. Il tuo editor lo conosce quasi quanto te. Dovete discutere della copertina perché attiri persone che non lo conoscono affatto. Dagli numerose alternative, e ascoltalo davvero: è il tuo primo lettore.

1) La copertina non è lì per compiacere te. Ha un lavoro da fare, non glielo impedire perché ti sei fissato con un’idea.

Per gli editor e gli editori: Dieci cose da tenere a mente quando discuti con il tuo autore la copertina del libro

10) Ricordati che nessuno conosce quel libro come l’autore. Ascoltalo.

9) Se l’autore arriva con un’idea precisa, che vuole valutare prima di ragionare di qualunque alternativa, accontentalo: in certi casi sarà l’idea perfetta, in altri servirà a ripartire da un ventaglio di alternative più efficace.

8) Non chiedere mai all’autore di aiutarti a far vendere il libro. La copertina è una membrana selettivamente permeabile che separa l’arte dal commercio. Più lo costringi ad avvicinarsi a quella membrana, più lo traumatizzi. Il tuo compito è che lui del commercio non si debba proprio occupare. Il gradiente osmotico dev’essere dal cuore dell’autore verso il lettore, non il contrario. Il mondo esterno non deve influenzare il lavoro creativo. Non troppo, almeno.

7) Non avere paura del falso ideologico: ti verrà naturale cercare, in tutto il film che è il libro di cui ti stai occupando, il fotogramma perfetto per la copertina. A volte quel fotogramma non esiste. A volte lo devi inventare, e prima di poterlo fare devi convincere l’autore di ogni fotogramma che davvero esiste a essere tuo complice. Sii quindi sempre pronto a motivare tutte le tue idee. Se non sai spiegarle a lui, non riuscirai a spiegarle ai potenziali lettori.

6) Impara ad avere l’ultima parola solo quando la penultima era noiosa.

5) Consultati con tutta la redazione: sei la seconda persona che conosce meglio il libro, quindi sei, come l’autore, troppo vicino alla materia narrativa per essere obiettivo. Fa’ vedere le bozze di copertina a tutti, dai grafici ai commerciali, dall’ufficio stampa alla contabilità.

4) Prima di scartare un’idea di copertina che ti convince solo a metà, chiedi ai grafici di applicare titoli e testi per valutare gli ingombri. Il peso tipografico del testo è una cartina di tornasole: svela le criticità dei disegni più convincenti e a volte salva quelli più deboli.

3) Una copertina che non trasmette tensione, o sospensione tra due momenti di tensione, non emoziona. I disegnatori capaci di emozionarti facendo vedere qualcuno che sta fermo sono pochi. Cerca il movimento, se devi giocare sul sicuro.

2) Quando credi di aver scelto il bozzetto giusto, fallo vedere a qualcuno che non ha partecipato al procedimento di selezione e fatti raccontare la copertina. Se non ti piace quello che senti, ricomincia daccapo.

1) La copertina non è lì per compiacere te. Ha un lavoro da fare, non glielo impedire perché ti sei fissato con un’idea.

Nel prossimo post gireremo il libro e lo guarderemo da dietro. Capiremo molte cose.

Costruire una copertina – Prima parte

Questo post è il primo di tre che si occuperanno di un tema editorialmente spinoso e sul quale è stato detto di tutto, nei decenni: le copertine. Partirò da un esempio virtuoso, poi esplorerò le esigenze editoriali e autoriali nei confronti della copertina di un libro, per poi concludere cercando di delineare dei princìpi-guida, che ovviamente non sono regole infallibili o assolute, e saranno comunque molto specifici all’editoria del Fumetto.

Non so se ci avete mai fatto caso, ma ci sono due tipi di proverbi: quelli basati sul buonsenso e sull’osservazione empirica (Rosso di sera, bel tempo si spera, oppure Chi dorme non piglia pesci) e poi ci sono quelli sulle aspirazioni morali, che a volte secondo me sono più difficili da difendere. L’abito non fa il monaco è una bellissima verità, filosoficamente, ma è anche vero che in generale, se ti vesti bene, chi deve fidarsi di te è più incline a farlo. In inglese questo proverbio ha due equivalenti: per dire che a volte l’apparenza trasandata nasconde qualità umane superiori all’aspetto si dice The clothes don’t make the man, mentre per cautelare dal facile entusiasmo nei confronti di qualcosa di attraente, ma non per forza di valore (un po’ come il nostro Non è tutto oro quel che luccica), si dice You can’t judge a book by its cover.
E in effetti non dovremmo giudicare un libro dalla copertina. Però lo facciamo sempre.
La copertina di un romanzo in prosa ha il diritto, in molti casi, di essere un non sequitur concettuale, perché in molti casi è la sola immagine associata a quel libro, mentre nel caso dei fumetti la responsabilità della copertina è immensa, perché deve essere non discordante rispetto allo stile grafico dell’interno, che il potenziale lettore ha modo di conoscere anche semplicemente sfogliando il volume in negozio, prima di portarlo a casa con sé.
Sfogliare un fumetto che non si conosce dà al potenziale acquirente molte più informazioni di quante non ne dia un romanzo in prosa. Si ha la sensazione di conoscerlo già, ed è per questo che è così importante che la copertina non tradisca le sensazioni che il libro ha trasmesso di primo acchito a chi lo ha preso tra le mani.
Quando è venuto il momento di creare la copertina di Da quassù la terra è bellissima, il più recente romanzo grafico di Toni Bruno, c’era da considerare una serie di problematiche: il libro parla di cosmonauti, di traumi psicologici e della guerra fredda. Cercare di comunicare tutte queste cose in una sola immagine poteva essere un’impresa.
Sapevamo che al centro di tutto ci doveva essere Akim, il cosmonauta, per una serie di ragioni: è uno dei due protagonisti assoluti della storia ed è un personaggio con la cui presenza è facile empatizzare.

Toni 02

Nei fumetti italiani è fondamentale la presenza di una figura umana in copertina. Le copertine simboliche, di solo design, generano meno empatia e meno interesse, con l’eccezione di quelle che abbiano il nome di un autore amatissimo sopra. La rispondenza del contesto della copertina alla trama è relativamente meno importante, ma per quanto ci premesse trasmettere il senso di alienazione che Akim prova dopo la sua missione spaziale, ci dovevamo arrendere al fatto che nel libro non lo si vede mai nello spazio.

Toni 03

Anche la soluzione pregna di pathos emotivo era da scartare: la storia di Toni è emozionante, ma come lo è L’attimo fuggente, non come Aliens. C’era bisogno di trovare un equilibrio tra il mondo da cui Akim è stato traumatizzato (lo spazio) e quello nel quale si sente allo stesso tempo bloccato e fuori posto (la terra).

Toni 04

Dopo un tentativo concettuale (una stanza che potrebbe essere un abitacolo spaziale, ma che in realtà si apre su un normalissimo cortile terrestre) e uno psicanalitico (Akim sulla poltrona di casa, ma nello spazio)

Toni 05

ci siamo resi conto che potevamo usare l’abbigliamento di Akim per dire “spazio” e che potevamo usare lo sfondo per dire “guerra fredda” o almeno “anni Sessanta”.

Toni 06

La stupenda finezza narrativa di questo bozzetto è che la cucina è a gravità zero, ma il solo che sembra attrezzato per il cosmo ha i piedi incollati per terra, perché non riesce a volare. Dal punto di vista contenutistico, c’era tutto quello che volevamo, ma non soddisfaceva la mia regola dei tre metri.

La regola dei tre metri è la teoria provocata dalla mia terrificante miopia: se passo tra gli scaffali in libreria e la copertina di un libro non mi attira da una certa distanza, non ha fatto il suo lavoro e non è colpa mia se ignoro una storia potenzialmente stupenda. Nel prossimo post parleremo un sacco della regola dei tre metri, perché ragioneremo di parametri generali e finiremo per sbatterci contro ogni volta che crederemo di aver evinto una regola per creare buone copertine. Nel caso di questo bozzetto di Toni, non c’era alterazione cromatica o di illuminazione che potesse rendere questo disegno impattante come serviva per assicurare l’attenzione del pubblico tra gli scaffali delle librerie.
Quindi:

Toni 01

Ecco. La sensazione di un crash landing, di un atterraggio imprevisto, dal cosmo direttamente nell’America rurale degli anni Sessanta (che strizzava l’occhio al fatto che Akim è russo, ma Jones è americano, e le due realtà sociali collidono nella storia). La postura fisica di Akim che sembra volersi scusare dell’intrusione. La sensazione di un’entità aliena che trafigge la quotidianità, e che allo stesso tempo trasmette un disagio. C’era bisogno di lavorare sulla posa del personaggio, cosa che Toni ha subito fatto.

Da quassù prova pose per cover

E poi c’era bisogno di spostare la staccionata perché ingombrasse meno e liberare spazio perché il logo BAO non avesse scomode tangenze con elementi del disegno. A volte non ci preoccupa mettere il logo in IV di copertina, ma ben più seria della mia regola dei tre metri è la regola dell’un-due-tre, quella che decreta quali tre elementi vengono notati da chi guarda una copertina. Sapevamo che il nome di Toni era poco noto ai più, quindi non sarebbe stato uno degli elementi notati per primi. Sapevamo che si sarebbero visti, nell’ordine, il disegno, il titolo e il logo BAO, del quale i lettori ormai si fidano, soprattutto quando non conoscono già il libro che hanno tra le mani.

Da quassù Bozza Cover II

Quando ho avuto questa bozza ho capito che il libro al quale Toni aveva lavorato due anni, e lungo tutta la cui lavorazione ero stato al suo fianco, sarebbe stato un successo: perché che era bello lo sapevo da sempre, ma non potevo avere la certezza che i potenziali lettori ci si sarebbero avvicinati. Quando ho fatto vedere questa bozza in redazione ho avuto solo reazioni di entusiasmo. Nessuno ha sollevato dubbi. Toni ha avuto subito luce verde.

Da quassù Bozza Cover Definitiva

Ho voluto cominciare questo lungo discorso sulle copertine con un caso in cui tutto è andato liscio e la visione dell’autore è coincisa con quella dell’editore e della redazione. Ringrazio Toni Bruno per avermi permesso di usare questi bozzetti inediti, e la settimana prossima parleremo di tutto ciò che può andare storto in una copertina. Perché ci sono libri che non parlano di avventura, ma creare la loro copertina è quasi sempre un’avventura.

Dieci motivi per cui hai bisogno di più marketing nella tua vita (editoriale)

IMG_2562

Questo post nasce dalla mia frustrazione derivante dall’uso improprio della parola marketing. Poiché chi ama i libri si ritiene un paladino della cultura, in Italia vige la falsa contrapposizione tra opere che si affermano per il loro valore e opere che “sono solo operazioni di marketing”. Quando BAO propone una nuova edizione di un libro molto amato, viene accusata “di farlo solo per il marketing”. Visto che il termine significa, letteralmente, “portare qualcosa verso il mercato”, forse è il caso di spiegare a chiare lettere perché non sia né una tecnica ipnotica implementata la quale voi ignari consumatori non potete fare a meno di comprare qualcosa che in realtà non volete, né soprattutto mera pubblicità.
Eccovi allora dieci motivi per cui, se lavorate in editoria, dovreste volere bene al marketing.

Dieci: Il marketing editoriale si compone principalmente di tre fasi di lavoro: il marketing analitico, che analizza il mercato, le sue tendenze, le aree sature e quelle neglette e vi aiuta a situare l’azienda nel contesto economico esistente; il marketing strategico, che all’interno del mercato di riferimento analizza le tendenze produttive e di acquisto, e permette di domandarsi in cosa si sia diversi dagli altri (e se la risposta non piace, costringe a capire come diventarlo); il marketing operativo, che costringe a domandarsi chi vorrà i libri che si pubblicano, prima ancora di domandarsi come far sì che le persone li vogliano. Situare la propria Casa editrice, le sue ambizioni e i suoi prodotti secondo questa classificazione rende più consapevoli della propria azione produttiva e commerciale.

Nove: Il marketing operativo impone di prendere in considerazione le Quattro P del marketing mix, ovvero Product, Pricing, Placement e Promotion. Per comprendere bene a chi si rivolge un libro non basta sapere di cosa parla e come lo racconta. Bisogna domandarsi che valori produttivi dare all’oggetto-libro, in che fascia di prezzo inserirlo, in che modo situarlo e contestualizzarlo nei canali di vendita e come attuare la promozione, sia a livello commerciale che mediatico. Lo sforzo creativo degli autori diventa efficace socialmente, e quindi economicamente, quando l’editore si pone il problema di connettere in maniera fluida e naturale il prodotto con il suo pubblico di riferimento.

Otto: Parlare di un libro con linguaggio specifico e mirato allerta il suo pubblico di riferimento, rendendolo consapevole dell’esistenza del libro stesso. In una società sempre più stimolata e distratta, oltre che una valida strategia commerciale, si tratta di un vero servizio al lettore. Il marketing non deve mentire sulle caratteristiche di un prodotto, ma spiegare a chi potenzialmente lo potrà amare che quel prodotto esiste, come è fatto e dove trovarlo.

Sette: Ragionando a ritroso dal punto precedente, capire chi sia il pubblico di riferimento di un libro aiuta a scegliere formato, materiali e punto di prezzo, cercando di tenere quest’ultimo al di sotto delle soglie psicologiche che dissuadono dall’acquisto. A volte non si può fare il prezzo ideale (Portugal di Cyril Pedrosa ha venduto molto più di Gli equinozi, il suo lavoro successivo. Questione di qualità delle opere? No. Portugal costa 27 euro, Gli equinozi 33. Ci sono molte pagine di differenza, ma il prezzo sopra i 30 euro ha dissuaso molti acquirenti, solo che era inevitabile, non poteva proprio costare meno) e questo limita il pubblico potenziale di un’opera.

Sei: Il marketing espone il prodotto. Lo sviscera, lo caratterizza, lo racconta. Se un libro è banale, il marketing non può renderlo interessante. Al massimo può parlarne evitando di sottolinearne la pochezza, ma quelle zone d’ombra, le cose non dette, si percepiscono. Perché il marketing lavora sull’emotività del destinatario del messaggio, e se non c’è emozione nel messaggio stesso si sente, il potenziale cliente lo capisce. Quindi il marketing, se applicato con onestà intellettuale, impone di innovare, di parlare solo di cose degne di essere comprate. E questo parametro non è soggettivo.

Cinque: “Bisogna fare solo i libri bellissimi.” Questa frase mi ossessiona da quando abbiamo fondato BAO. Eppure è vera, ed è spiegabile in modo quasi scientifico. I libri bellissimi sono quelli che, una volta finiti, lasciano il lettore con una fortissima voglia di regalarli a una persona cara o di consigliarli appassionatamente e spassionatamente a tutti. Il marketing più efficace è il passaparola, e non lo fa il produttore, ma il prodotto.

Quattro: Poiché il marketing espone la vera natura di un libro e di chi lo produce, ogni volta che le promesse della comunicazione si concretizzano e il lettore si scopre soddisfatto dell’acquisto, il rapporto di fiducia nei confronti di chi ha trasmesso quel messaggio si rafforza. Nella comunicazione commerciale, l’onestà paga, e si tramuta in fedeltà del cliente. Questo si chiama vantaggio cumulativo, ed è un meccanismo virtuoso che migliora il proprio rendimento con il tempo.

Tre: A lungo andare, i messaggi legati ai singoli prodotti diventano un discorso. E in filigrana chi ha ascoltato quel discorso non vede più i libri, ma chi li fa. Questo fa sì che la personalità creativa della Casa editrice diventi importante quanto l’identità degli autori a catalogo e dei libri che fa. Più è focalizzato il messaggio sulla mission della Casa editrice, più è facile che il lettore accolga serenamente e positivamente le sue proposte. Il marchio assume quindi un valore a sé, che prescinde dai prodotti. La sua autorevolezza consente all’azienda di innovare, proponendo prodotti che saranno considerati dal pubblico semplicemente per il fatto che “se quella Casa editrice ci crede, forse lo devo leggere”. Il medium diventa il messaggio, come teorizzava Marshall McLuhan, e il produttore diventa a sua volta parte del valore del prodotto.

Due: In editoria le copertine vengono fatte secondo la teoria dell’un-due-tre. Considerando una bozza di copertina ci si domanda sempre: quali sono i tre elementi che il lettore riconoscerà, che troverà motivanti per l’acquisto? A volte si tratta, nell’ordine, di autore, titolo e immagine di copertina. A volte autore, titolo e logo della Casa editrice. Quando la combinazione vincente è Immagine, titolo e logo, significa che l’autorevolezza del marchio supplisce alla poca fama del nome dell’autore. E questo avviene quando le precedenti pubblicazioni si sono rivelate di alta qualità, e la comunicazione è stata efficace: non basta fare libri belli. Bisogna promettere che saranno belli, spiegare in che modo lo sono, e poi lasciare che il lettore lo verifichi in modo autonomo. Così un logo aziendale diventa un marchio di garanzia.

Uno: Costringersi alla scelta del linguaggio giusto per veicolare i messaggi porta ad affinare la comunicazione e a renderla più efficace. Se questo articolo non avesse avuto il titolo che ha, e non fosse stato organizzato come una lista, molti non lo avrebbero letto. E il libro dell’immagine che ho scelto funziona allo stesso modo: se si fosse intitolato “Elmore Leonard ti insegna a scrivere” molti potenziali lettori si sarebbero semplicemente domandati: “Chi era già, questo Elmore Leonard?” Filistei, lo so, ma basta il titolo giusto ad avvicinare anche loro al pensiero di uno scrittore immenso.

Che è un po’ lo scopo di tutto quello che facciamo qui. Convincere la gente a fidarsi di noi, perché possano conoscere autori e libri che altrimenti avrebbero ignorato. È la parte che più amo del mio lavoro, e non è affatto “solo una tecnica di marketing”.

Guardar nascere un libro

Venerdì scorso ho caricato sulla macchina Gigi Cavenago, il copertinista di Dylan Dog, e Lorenzo Bolzoni, capo grafico BAO, e li ho portati a Mestrino, in provincia di Padova, allo stabilimento delle Industrie Grafiche Peruzzo, a vedere stampare l’edizione BAO di Mater Dolorosa, l’episodio del trentennale di Dylan Dog, scritto da Roberto Recchioni e che Gigi ha disegnato e dipinto in digitale.

IMG_2160

Il motivo del viaggio, e della nostra levataccia, era semplice: sapendo che il suo lavoro sarebbe stato originariamente stampato in rotativa su una carta molto porosa, Gigi aveva lavorato per un anno calcolando le masse, le luci, i colori e i contrasti cromatici in modo da cercare di anticipare i problemi di assorbimento dell’inchiostro in fase di stampa che potevano manifestarsi nell’edizione da edicola della storia. A onor del vero quell’albo è stato stampato molto bene, in parte per merito degli accorgimenti di Gigi e in parte perché la tipografia ha saputo compensare le problematiche che erano dietro l’angolo. Lavorare all’edizione da libreria per Gigi era come essere operato di cataratta nell’intervallo di un film e assistere al secondo tempo con la vista in perfette condizioni: rischiava di essere abbacinato dalla resa di stampa. Era necessario che istruisse lui i tecnici della Peruzzo sugli aggiustamenti di colori da effettuare.
Sono stato io a insistere per questo viaggio (me lo sono dovuto ricordare, davanti allo specchio, alle cinque del mattino), perché quando costruiamo un libro ho tre regole: fidati dei materiali che hai scelto, fidati delle persone che li maneggeranno, ma soprattutto fidati dei tuoi occhi. Quella con un tipografo, come ogni relazione che vale davvero la pena, è una storia fatta di costante comunicazione.
Quando siamo arrivati, c’era questo cartello di benvenuto:

IMG_2161

E intendo che era stato messo in ogni ufficio dell’azienda. 🙂
Avevo chiesto alla tipografia la cortesia di allestire su due macchine contemporaneamente la stampa di interni e copertine, perché volevo che Gigi potesse valutare più cose nelle ore a nostra disposizione. Loro si sono superati, dedicandoci tre macchine: la Heidelberg da 10 colori per gli interni, e altre due macchine per i risguardi e le copertine.
Per prima cosa Gigi si è fatto spiegare come funzionano le moderne macchine per la stampa offset, guidato dal competentissimo responsabile, Alessandro Levorin:

IMG_2163

E poi siamo andati ad analizzare i primi fogli macchina della segnatura numero 1, il primo fascicolo di sedici facciate del libro.

IMG_2171

Gigi ha spiegato ai tecnici cosa voleva correggere, e i calamai di stampa sono stati regolati opportunamente. La carta di questa edizione è la Fedrigoni Symbol Matt Plus, una delle più belle patinate opache che abbiamo mai usato, nella versione da 150 grammi al metro quadro.

IMG_2173

Ci sono voluti circa duecento fogli di prova per mandare a regime le correzioni, sotto lo sguardo attento del tecnico di macchina Alberto Cusinato.


A quel punto ho chiesto se fosse possibile stampare subito dopo la segnatura numero 1 la numero 3, perché è quella con le scene diurne a Moonlight, le più diverse – cromaticamente – dal tono generale della storia. Ci è stato detto che per terminare le diecimila copie della prima segnatura ci sarebbe voluta circa un’ora, così siamo andati a controllare la stampa dei risguardi.

IMG_2183

Poiché si trattava di stampa monocromatica, ci è voluto poco per essere rassicurati dal risultato, e siamo andati a guardar stampare le copertine.


La prima è stata la Variant, che ha richiesto qualche aggiustamento, ma è stata ben presto licenziata con piena soddisfazione da Gigi.

IMG_2199.JPG

Quando siamo passati alla regular è stato necessario per prima cosa cambiare le lastre di stampa.

IMG_2205

Il procedimento è semplice, ma richiede grande precisione, e Gigi e Lorenzo non hanno perso occasione per farselo raccontare nel dettaglio da Fabio Cusinato, geloso custode delle Heidelberg “storiche” della Peruzzo.

IMG_2223

Poi la stampa della seconda copertina è iniziata e c’è stato bisogno di domare i valori del giallo. Gigi era ormai perfettamente in sintonia con il procedimento produttivo e ha potuto dare istruzioni precise a Fabio.

IMG_2240

A regolazioni effettuate è stato ben lieto di firmare l’approvazione alla stampa sul primo foglio macchina definitivo.

IMG_2241

Il tempo di fare un paio di dediche nell’ufficio dei grafici…

IMG_2252

… ed è arrivato il momento di andare a controllare i primi fogli in uscita della segnatura 3, con i suoi azzurri intensi.

IMG_2255

Questo ha permesso ai tipografi di avere una guida cromatica alla quasi totalità delle casistiche del libro, il che ci ha dato la tranquillità necessaria per fare qualche ultima raccomandazione e poi ripartire, sapendo che il volume sarà rispondente alle aspettative dell’uomo che lo ha disegnato.

IMG_2268

La ragione per cui siamo dovuti partire all’alba per arrivare presto in tipografia era semplice: per stampare diecimila copie di questo libro di centosessanta pagine, servivano venti ore di lavoro su tre turni, tra venerdì e sabato. Ora il volume è in legatoria, e il 30 marzo sarà in tutte le fumetterie e librerie d’Italia. E noi sentiamo di aver fatto tutto ciò che potevamo per rendere la visione di Roberto e di Gigi nel modo più fedele, vivido, puro e rispettoso.
E nonostante la levataccia e le occhiaie, è stato un privilegio poter fare le cose per bene, e regalare a Gigi Cavenago l’emozione di veder nascere quelle pagine per la seconda volta, nella loro terza vita, dopo quella sullo schermo del suo computer e quella dell’edizione da edicola.

(Un grazie affettuoso e sincero a Lorenzo Menini e Gianluca Politi, che ci hanno fatto sentire più che a casa, che di “Casa editrice” è senz’altro la nostra parola preferita.)

Foreign Rights – Parte 2 – Selling Comics by the pound

IMG_2099

Quando scrivevo storie di Pikappa, una dozzina di anni fa, c’era una regola redazionale che mi tornava molto utile narrativamente: le sceneggiature erano sempre per quarantotto pagine, ma a pagina ventiquattro andava inserita una cesura narrativa, perché in alcuni paesi scandinavi quelle storie venivano pubblicate in due parti e ci voleva un cliffhanger minore per indicare la fine della prima parte. Era molto comodo, per chi scriveva, sapere di avere una sorta di baricentro narrativo; mi aiutava a capire se c’era equilibrio di azione nelle due metà delle mie storie. Certo, la ragione era meramente commerciale, perché se le storie non si fossero potute smontare in due capitoli certi mercati non le avrebbero acquistate, ma era una richiesta molto semplice da esaudire, per me.
Anni dopo, il desiderio di rendere ogni storia potenzialmente appetibile per il mercato globale ha portato all’istituzione di parametri narrativi oggettivamente più restrittivi in termini di lunghezza delle storie e temi che si potevano trattare, ma non è mai stato un mio problema: prima di diventare un creativo che si doveva preoccupare della burocrazia del Fumetto, ho abbandonato la scrittura per diventare un burocrate creativo. E infatti, eccomi qua.

Se una multinazionale dell’intrattenimento è costretta a fare fin troppa attenzione a non precludersi nessuno dei mercati sui quali si trova a operare, la maggior parte delle Case editrici di fumetti italiane si pone troppo poco il problema, e spesso quando decide di pubblicare materiale originale non si rende conto di realizzare storie troppo italocentriche, difficili se non impossibili da esportare.
Stando a dati AIE di un paio di anni fa, in Italia il 60% dei libri che si pubblicano sono importati, e il restante 40% è di autori italiani. Se si entra in una fumetteria è probabile che la percentuale sia ancora più sfavorevole. Produrre un fumetto costa più tempo, più denaro e richiede più competenze rispetto a un titolo importato dall’estero, e fino a qualche anno fa – con alcune notevoli eccezioni – era molto probabile che un titolo italiano vendesse meno di uno straniero.

Digressione: se trovi un autore disposto a pubblicare gratis, forse un titolo italiano costa meno di un titolo importato. Ma questo è un blog serio, e mi piace pensare che tutti i colleghi lo siano, quindi non prenderò nemmeno in considerazione questa possibilità.

Qui in BAO siamo strenui fautori della politica di scegliere che titoli pubblicare in base al gusto personale e, anzi, abbiamo fatto del nostro gusto di lettori una filosofia editoriale, ma ci poniamo sempre il problema di cercare di evitare i progetti impossibili da spiegare all’estero. Tematiche troppo legate al tessuto sociale italiano, o storie interamente basate su giochi di parole difficili da tradurre con efficacia sono i casi più evidenti di storie che ci lasciano perplessi quando ci vengono proposte. La motivazione è pratica: quando pubblichiamo un libro non abbiamo la certezza che andrà bene. Questo significa che non siamo certi che copriremo tutte le spese necessarie per realizzare il libro, o che l’autore vedrà royalties in aggiunta all’anticipo sui diritti che gli avremo dato. Pertanto, quando possibile, cerchiamo di finanziare progetti che potenzialmente possano essere venduti anche su altri mercati.

Le difficoltà non sono solamente legate al tema o allo stile, ovviamente: il mercato francese è saturo di uscite (oltre seimila novità l’anno) e quello americano è composto al 96,4% da titoli prodotti negli USA, mentre le importazioni ammontano solo al 3,6% residuo. È quindi molto difficile vendere un’opera su uno di questi mercati. Tuttavia, se un libro vale, e si riesce a portarlo nel modo giusto sotto al naso degli editori internazionali, non è impossibile.
In Italia solo il 15% delle Case editrici (in generale, non solo di fumetti) è dotato di un ufficio diritti internazionali. Questo vuol dire che, per le motivazioni più disparate, oltre otto editori su dieci rinunciano a cercare di vendere le opere che posseggono (o rappresentano per conto degli autori) ad altri mercati. Ma qual è lo sforzo necessario per accedere ai mercati esteri? Vediamolo nel dettaglio.

Per prima cosa è fondamentale fare autocritica: la cultura italiana è ammirata, ma non sempre di immediato interesse per il resto del mondo. Un graphic novel sulla romantica e piratesca figura del mozzarellista, per esempio, potrebbe anche avvincere un lettore straniero, ma la storia della Giostra del Saracino di Arezzo nei secoli, magari, meno. Parimenti, la nostra amata lingua è meno parlata (e letta) nel mondo di quanto si pensi. Quindi è necessario stanziare i fondi necessari a tradurre e letterare in inglese i titoli che si vogliono esportare. La mia ormai quasi ventennale esperienza mi induce a dire che i mercati di lingua inglese saranno comunque tra gli ultimi a interessarsi, ma la loro lingua è così diffusa da rendere inevitabile la scelta. È poi il caso di dotarsi di un sito dedicato, dove non solo siano presenti schede sintetiche dei titoli disponibili, ma anche un elenco aggiornato di editori stranieri che hanno già comprato i diritti di un certo titolo (o, più in generale, dei titoli di quella Casa editrice). Il motivo è semplice: se altri ci hanno creduto, è più facile decidere di fare altrettanto.
Diventa a questo punto essenziale avere in ufficio una risorsa umana dedicata alla costruzione di una mailing list di editori, scout e agenti, cui mandare periodiche newsletter che parlano di uno specifico titolo che si desidera vendere. Rendere disponibili i PDF in inglese (e in italiano, perché per esempio ci sono editori di lingua spagnola e portoghese che lo leggono più volentieri) e offrirsi di spedire copie stampate dei libri per la valutazione sono pratiche utili a rendere più interessanti i titoli da vendere.
Le fiere sono un altro aspetto fondamentale: Angoulême a gennaio, Bologna ad aprile e Francoforte a ottobre sono i tre momenti-cardine per la vendita e l’acquisizione delle licenze editoriali, ed è importante essere pronti e presenti. Noi per anni ci siamo andati esclusivamente per comprare, e abbiamo notato l’inversione di tendenza quando, dopo aver allestito correttamente il nostro dipartimento Foreign Rights, le richieste di appuntamenti per vedere il nostro catalogo hanno cominciato ad arrivarci spontaneamente.
Tanto l’invio di newsletter tecniche quanto i pitch dal vivo alle fiere sono utili, ma non si tramutano quasi mai in vendite. Chi segue questa parte del lavoro nella Casa editrice deve fare un costante, meticoloso lavoro di follow-up, scrivendo per esempio a tutti coloro che ha incontrato dopo una fiera, riassumendo ciò di cui si è parlato, ma anche semplicemente rispondendo sempre a tutte le domande che una newsletter può generare.
Un venditore tende ad arrendersi dopo cinque tentativi, dicono numerosi studi. Ma l’80% delle vendite avviene dopo il settimo tentativo. Se vi arrendete, il vostro interlocutore penserà che in fondo non vi importasse molto di vendere la licenza per quel certo libro. Se perseverate, invece, sarà evidente che ci tenete, che conoscete bene tanto il vostro libro quanto il catalogo dell’editore cui state facendo la corte, e quindi sarà più probabile che – a prescindere che la risposta sia “lo compro” o “no grazie” – riceviate una reazione onesta, costruttiva e consapevole.

Digressione: Badate, non vi sto consigliando di assillare nessun editore. Si tratta di riprendere in modo cortese e non ossessivo il discorso a ogni occasione utile: se a gennaio avete presentato un titolo, prima di rivedervi ad aprile mandate un reminder, e se dopo aprile non c’è stata espressione di interesse all’acquisto mandate una copia fisica al vostro interlocutore con un biglietto che dice “Secondo me è perfetto per il tuo catalogo”. Cercate di non diventare mai, agli occhi di nessuno, un rompiballe. A nessuno piace un rompiballe. Io reagirei malissimo.

Se avete letto fin qui, vi starà venendo il sospetto che vendere i diritti stranieri di un fumetto non sia affatto facile, e avete ragione. Però c’è una motivazione molto forte per cui cercare di farlo: una Casa editrice che offre quella prospettiva a un suo autore è molto più appetibile di una che neanche ci prova. E il principale capitale di cui dispone un editore sono gli autori nel suo catalogo. E non quelli che sono passati di lì per il tempo di un libro, ma quelli che sono felici di farne parte e, al netto di altre collaborazioni, non hanno nessuna intenzione di andarsene. Quelle persone, che devolvono migliaia di ore alla realizzazione di un solo libro, meritano eccellenza. La scelta della carta è cura, la corretta comunicazione al pubblico è cura, un buon feeling con la stampa è cura. Saper entusiasmare non solo i singoli lettori, ma perfino altri editori è cura. Dimostrare di aver interiorizzato così bene il messaggio di un libro da saperlo tradurre a beneficio dei colleghi stranieri è tra le forme più alte di cura per un progetto editoriale.

E poi tutto quello che serve è un successo. Uno dei grandi paradossi del catalogo BAO è stato, per anni, il fatto che il nostro più grande successo, Zerocalcare, era considerato intraducibile dagli editori stranieri. A onor del vero dopo La profezia dell’armadillo il lavoro di Michele si è fatto via via sempre meno legato alla cultura popolare italiana, assumendo un respiro realmente classico e universale, ma ci è voluto Kobane Calling, perché il mondo editoriale si rendesse conto del potenziale. Nel 2016 quel libro è stato venduto in Francia, Spagna, Germania, Norvegia e Stati Uniti. La sola edizione straniera uscita finora è quella Francese, che in meno di tre mesi ha superato le ventimila copie vendute. Da quel momento, e non solo in Francia, gli editori si contendono gli altri titoli del suo catalogo. Questo ha aumentato l’attenzione verso il resto della nostra rights list e ora la nostra addetta ai Foreign Rights ha un bel daffare a rispondere alle mail degli editori che ci scrivono. L’ambizione, dopo aver venduto una dozzina di licenze nel 2016, è di dover assumere qualcuno che si occupi di questo dipartimento a tempo pieno entro il 2019.

Ho cominciato questo articolo raccontando di come il bisogno di globalizzare la narrazione rischi di danneggiare la creatività. Mentre scrivevo ho continuato a domandarmi se abbiamo mai consapevolmente chiesto a un nostro autore di fare o non fare qualcosa, narrativamente, per non alienare il possibile pubblico straniero. Poi però mi sono detto che proprio in questi giorni un editore americano ha pubblicato Il suono del mondo a memoria, quindi una storia sul suo stesso Paese, e che i libri perfetti sono quelli che si traducono senza difficoltà di adattamento culturale (il mio esempio preferito è Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino. In qualunque lingua io lo abbia letto, l’ho sempre trovato intatto nelle intenzioni). La bussola da seguire è sempre quella dell’entusiasmo bruciante degli autori per le loro opere: ce ne dev’essere tanto da consentire loro di finire il libro senza disamorarsene, e un po’ d’avanzo per infettare i lettori italiani, e ancora un poco perché anche all’estero ci si renda conto di quanto è speciale quel libro. Forse a causa del fatto che il successo della Casa editrice per cui lavoro è dovuto in larga parte al passaparola positivo, non posso non concludere che il passaparola è la sola cosa che dobbiamo realmente ambire a globalizzare.